Ebraico
Lingua in cui fu scritta la maggior parte delle Scritture ispirate: trentanove libri in tutto (secondo la divisione del materiale in molte traduzioni), che costituiscono circa i tre quarti dell’intera Bibbia. Qualche piccola parte di questi libri fu però scritta in aramaico.
Nelle Scritture Ebraiche non compare il termine “ebraico” riferito alla lingua, ma troviamo l’aggettivo o il sostantivo “ebreo” riferito a singoli individui o all’intero popolo d’Israele. Sono menzionate la “lingua dei Giudei” (II Re 18:26, 28), il “giudaico” (Nee. 13:24) e la “lingua di Canaan” (Isa. 19:18), che, in quell’epoca (VIII secolo a.E.V.) era fondamentalmente l’ebraico.
Nelle Scritture Greche Cristiane il termine “ebraico” è usato per indicare espressamente la lingua parlata dai giudei (Giov. 5:2; 19:13, 17, 20; Atti 21:40; 22:2; Riv. 9:11; 16:16), la lingua in cui il risuscitato e glorificato Gesù si rivolse a Saulo di Tarso. (Atti 26:14, 15) In Atti 6:1 si fa una distinzione fra giudei di lingua ebraica e giudei di lingua greca. — Vedi GRECI, GRECIA.
La storia secolare non rivela l’origine della lingua ebraica, e neanche di qualsiasi altra delle più antiche lingue conosciute, come sumero, accadico (assiro–babilonese), aramaico ed egiziano. Questo perché tali lingue compaiono già pienamente sviluppate nei più antichi scritti che siano stati scoperti. — Vedi LINGUA, II.
La Bibbia è l’unica fonte storica che offre una fidata spiegazione dell’origine della lingua che conosciamo come l’ebraico, lingua che era parlata dagli israeliti discendenti di — “Abramo l’Ebreo” (Gen. 14:13), il quale a sua volta era discendente di Sem figlio di Noè. (Gen. 11:10-26) A motivo della benedizione profetica impartita da Dio a Sem (Gen. 9:26), è ragionevole ritenere che la lingua di Sem sia rimasta inalterata quando Dio confuse la lingua dei disapprovati abitanti di Babele. (Gen. 11:5-9) La lingua di Sem rimase la stessa di sempre, la “sola lingua” che esisteva all’epoca di Adamo. (Gen. 11:1) Ne consegue che la lingua che fu poi chiamata “ebraico” era la lingua originale del genere umano.
Una ragione determinante per ritenere che l’ebraico biblico rappresenti precisamente la “sola lingua” di epoca prebabelica è la notevole stabilità della lingua ebraica durante tutto il millennio nel quale furono messe per iscritto le Scritture Ebraiche. The International Standard Bible Encyclopædia osserva: “Uno dei fatti più notevoli relativi all’ebraico del VT è che anche se tali scritti abbracciano un periodo di oltre 1.000 anni, non c’è quasi nessuna differenza fra la lingua delle parti più antiche e quella delle più recenti”. La stessa opera di consultazione più avanti nota: “È inutile aggiungere che i vari scrittori differiscono uno dall’altro in quanto a stile, ma tali varianti sono minime in paragone con quelle di autori greci e latini”. — Vol. III, p. 1833.
Sembra che il declino dell’ebraico sia iniziato come risultato della distruzione di Gerusalemme e del suo tempio e della dispersione dei superstiti nel 70 E.V. Comunque continuò a essere usato nelle sinagoghe dovunque ci fossero ebrei. Particolarmente dal VI secolo E.V. in poi, dotti ebrei chiamati masoreti fecero diligenti sforzi per conservare la purezza del testo ebraico delle Scritture. E specie dal XVI secolo in poi crebbe l’interesse per l’ebraico antico e il secolo successivo vide iniziare un intenso studio di altre lingue semitiche. Questo ha contribuito a rendere più chiaro l’intendimento della lingua antica e come risultato si sono avute migliori traduzioni delle Scritture Ebraiche.
SCRITTURA E ALFABETO EBRAICO
L’alfabeto ebraico era composto di ventidue consonanti, alcune delle quali potevano evidentemente rappresentare due suoni, per un totale di ventotto suoni. Le vocali venivano aggiunte dal lettore, secondo il contesto, proprio come un lettore di lingua italiana può completare abbreviazioni come “cfr”. (confronta), “v.le” (viale) e “p.za” (piazza). Si presume che la pronuncia tradizionale delle Scritture Ebraiche sia stata tenuta viva e tramandata da coloro che si dedicavano alla lettura della Legge, dei Profeti e dei Salmi per l’istruzione della popolazione. Poi, nella seconda metà del I millennio E.V., i masoreti escogitarono un sistema di punti e lineette detti segni vocalici, che furono inseriti nel testo consonantico. Inoltre furono aggiunti certi accenti per indicare la sillaba tonica e le pause, per collegare parole e frasi, e anche come notazione musicale.
Le più antiche iscrizioni ebraiche conosciute sono in una scrittura antica notevolmente diversa dalle lettere ebraiche “quadrate” di documenti più tardi, ad esempio quelli dei primi secoli dell’era volgare. La scrittura quadrata a volte è detta “aramaica” o “assira”. Quando sia avvenuto il passaggio da una scrittura all’altra non si sa. Alcuni ritengono che la trasformazione fosse già iniziata nel IV secolo a.E.V. Comunque, il professor Ernst Würthwein dice: “Quello che è certo è che per molto tempo la scrittura ebraica antica rimase in uso accanto alla scrittura quadrata. È ancora usata per esempio nelle iscrizioni di monete dell’epoca della rivolta di Bar Kochba (132–135 A.D.) e in frammenti di Lev. xix–xxiii scoperti nel 1949 durante ulteriori scavi nella I grotta di Qumran presso il Mar Morto”. — The Text of the Old Testament, p. 4.
Origene, scrittore cristiano del II e III secolo E.V., afferma che nelle copie più corrette di traduzioni greche delle Scritture Ebraiche, il Tetragramma o sacro nome di Geova era scritto in antichi caratteri ebraici. Questo è confermato dalla scoperta di un frammentario rotolo di pergamena che contiene i profeti minori in greco, scritto pare nel periodo compreso fra il 50 a.E.V. e il 50 E.V. In questo rotolo c’è il Tetragramma in caratteri antichi. Anche la versione greca di Aquila (nel Palinsesto Ambrosiano del V secolo E.V.) contiene il nome divino scritto in lettere ebraiche antiche.
Il dottor Horowitz dice: “I greci adottarono l’alfabeto ebraico antico che passò poi al latino, ed è all’alfabeto ebraico antico che quello greco assomiglia di più”. — How the Hebrew Language Grew, p. 18.
QUALITÀ E CARATTERISTICHE
L’ebraico è una lingua molto espressiva che si presta a una vivace descrizione degli avvenimenti. Le sue frasi brevi e le congiunzioni semplici conferiscono movimento e rendono scorrevole il pensiero. La poesia ebraica, che a queste qualità aggiunge parallelismi e ritmo, è straordinariamente espressiva e animata.
L’ebraico è ricco di metafore. Il “lido del mare” di Genesi 22:17, in ebraico letteralmente è il “labbro del mare”. Altre espressioni sono la “faccia della terra”, la “testa” di un monte, la “bocca di una caverna”, e simili. L’uso di tali termini non indica in alcun modo una credenza animistica, come si può vedere dalla lettura delle Scritture stesse; infatti è dimostrato sommo disprezzo per coloro che attribuiscono vita o qualsiasi potere ad alberi e altre cose inanimate. — Confronta Isaia 44:14-17; Geremia 10:3-8; Abacuc 2:19.
Il vocabolario ebraico è composto di termini concreti, termini che si richiamano ai sensi della vista, dell’udito, del tatto, del gusto e dell’odorato. In tal modo dipingono un quadro mentale per l’ascoltatore o il lettore.
È chiaro che nell’ebraico biblico ci sono anche alcuni nomi astratti. Per esempio, il sostantivo mahhashavàh (derivato dalla radice hhashàv, che significa ‘pensare’) è tradotto con nomi astratti come ‘pensiero, stratagemma, invenzione, disegno’. Da batàhh (verbo che significa ‘confidare’) deriva il sostantivo bètahh, ‘confidente, sicurezza’. Comunque, di solito idee astratte sono espresse da nomi concreti.
In realtà, proprio per questa concretezza le Scritture Ebraiche si prestano così bene alla traduzione, infatti il significato dei termini generalmente è universale: vogliono dire la stessa cosa in qualsiasi lingua. Tuttavia, è un’impresa per il traduttore rendere in una lingua come l’italiano il particolare fascino, la semplicità, il modo di esprimersi e il vigore dell’ebraico, specie nelle sue forme verbali.
L’ebraico è straordinario per la sua concisione; la sua struttura stessa consente tale incisività. L’aramaico, la più vicina all’ebraico delle lingue semitiche, in paragone è più pesante, tortuoso, prolisso. Nel tradurre è spesso necessario ricorrere a parole supplementari per rendere la vivacità, l’originalità e l’azione drammatica del verbo ebraico. Anche se questo nuoce in un certo qual modo alla concisione, permette di cogliere più pienamente la bellezza e precisione del testo ebraico.
LA POESIA EBRAICA
Queste stesse qualità, incluso il forte senso della realtà, fanno dell’ebraico una lingua particolarmente poetica. I versi ebraici sono brevi — spesso non più di due o tre parole — tanto che l’effetto generale è di grande veemenza. Il professor James Muilenburg, del comitato di traduzione della Revised Standard Version, ha giustamente osservato: “Il linguaggio [nella poesia ebraica] è condensato, e tutta l’enfasi è posta sulle parole importanti. Il testo ebraico del Salmo 23 consiste di sole cinquantacinque parole; le moderne traduzioni occidentali ne richiedono circa il doppio. Eppure anche nella traduzione l’economia dell’ebraico originale non è perduta. . . La poesia ebraica è lingua viva. . . Il poeta ebreo ci fa vedere, udire, toccare con mano. Le sensazioni fisiche sono fresche e vive. . . Il poeta pensa per immagini, e le immagini sono tratte dal campo della vita di ogni giorno comune a tutti gli uomini”. — An Introduction to the Revised Standard Version of the Old Testament (1952), pp. 63, 64.
Per fare un esempio della concisione del linguaggio poetico ebraico osserviamo il primo versetto del Salmo 23 com’è reso nella Traduzione del Nuovo Mondo. I termini italiani necessari a tradurre ciascun termine ebraico sono separati da una barra (/):
Geova / [è] il mio Pastore. /
Non mi mancherà / nulla. /
Si può vedere che in italiano ci vogliono nove parole per tradurre quattro parole ebraiche. La voce verbale “è” ha dovuto essere aggiunta per rendere chiaro il senso, mentre in ebraico è sottintesa.
Principali forme di parallelismo
Il più importante elemento formale della poesia ebraica è il parallelismo, ritmo raggiunto non con la rima (come in italiano), ma con la logica del pensiero; è stato definito “ritmo del senso”. Notate i due versi del Salmo 24:1:
A Geova appartiene la terra e tutto ciò che la riempie,
Il paese produttivo e quelli che vi dimorano.
Questi versi sono definiti parallelismo sinonimo, infatti il secondo verso ripete parte del verso precedente, ma in altre parole. La frase “A Geova appartiene” è essenziale in entrambi. Mentre le espressioni “la terra” e “il paese produttivo” sono sinonimi poetici, come pure “ciò che la riempie” e “quelli che vi dimorano”.
Molti eruditi odierni convengono che esistono altre due forme principali di parallelismo:
Il parallelismo antitetico, in cui, come indica il nome, ciascun verso esprime pensieri opposti. Il Salmo 37:9 lo illustra:
Poiché i malfattori stessi saranno stroncati,
Ma quelli che sperano in Geova sono coloro che possederanno la terra.
C’è poi il parallelismo sintetico (o, formale, costruttivo) in cui la seconda parte non fa un contrasto né riecheggia semplicemente il pensiero espresso nella prima parte, ma lo amplia aggiungendo un pensiero nuovo. Il Salmo 19:7-9 ne è un esempio:
La legge di Geova è perfetta,
ridona l’anima.
Il rammemoratore di Geova è degno di fede,
rende saggio l’inesperto.
Gli ordini da Geova sono retti,
fanno rallegrare il cuore;
Il comandamento di Geova è mondo,
fa brillare gli occhi.
Il timore di Geova è puro,
sta per sempre.
Le decisioni giudiziarie di Geova sono veraci;
si son mostrate giuste tutte insieme.
Notate che la seconda parte di ciascuna frase o proposizione completa il pensiero; l’intero verso è dunque una sintesi, vale a dire il risultato dell’unione di due elementi. Solo dalla seconda parte di ciascun verso, come “ridona l’anima” e “rende saggio l’inesperto”, il lettore capisce in che modo la ‘legge è perfetta’, e il “rammemoratore di Geova è degno di fede”. In tale serie di paralleli sintetici, la divisione fra la prima e la seconda parte serve come pausa ritmica. C’è dunque, oltre alla progressione del pensiero, la preservazione di una certa struttura del verso: un parallelo di forma. Per questa ragione a volte è chiamato parallelismo formale o costruttivo.
GRAMMATICA
I Verbi
Nella lingua ebraica i verbi sono la più importante parte del discorso. La radice del verbo ebraico è di solito triletterale, cioè composta di tre consonanti, struttura normale nelle lingue semitiche.
Ecco alcuni esempi di radici verbali ebraiche:
מטל Qa·TaLʹ uccidere
משׁל Ma·SHaLʹ governare
בּתכ Ka·THaVʹ scrivere
Da tali radici triconsonantiche derivano quasi tutti gli altri vocaboli della lingua. Questo non avviene in italiano e nelle altre lingue indoeuropee. Consultando la tabella della traslitterazione che segue, si può vedere che nell’ebraico alcune lettere hanno sia un suono “duro” che un suono “dolce” o “aspirato”; un po’ come la “c” in italiano che è “dolce” in cento e “dura” in canto. In ebraico tali lettere (col suono dolce indicato fra parentesi quadre) sono: B[V], G[GH], D[DH], K[KH], P[PH], T[TH]. Noterete che quasi tutte le consonanti “dolci” o “aspirate”, pur essendo una sola lettera in ebraico, sono rappresentate foneticamente nella traslitterazione da due lettere.
A. Aspetto verbale
In italiano il tempo del verbo ha nella frase un’importanza determinante: indica se l’azione è passata, presente o futura. In ebraico invece la cosa importante è la condizione dell’azione, più che l’elemento tempo: l’azione può essere completa o incompleta.
Se il verbo esprime un’azione completa o compiuta è al perfetto. Per esempio Genesi 1:1 dice: “In principio Dio creò i cieli e la terra”. L’azione era compiuta; Dio “creò”; vale a dire finì di creare i cieli e la terra.
Se l’azione è considerata incompleta, il verbo è all’imperfetto. Questo può essere illustrato con Esodo 15:1: “Mosè e i figli d’Israele cantavano”. Si può notare che l’azione era cominciata, ma non era ancora terminata e quindi era “imperfetta”, non ultimata.
Naturalmente, dal momento che il carattere stesso del perfetto ebraico rappresenta un’azione compiuta, è solo naturale che questa appartenga al passato. Perciò KaTHàV (verbo perfetto attivo) significa fondamentalmente “scrisse” e spesso è tradotto così. (II Re 17:37; II Cron. 30:1; 32:17; Est. 8:5) L’idea di un’azione compiuta nel passato si osserva anche nella traduzione “era scritta” (Esd. 4:7), “aveva scritto” (Est. 9:23) e “avesse scritto”. (Giob. 31:35) Ma KaTHàV può anche essere tradotto “ha scritti” (II Cron. 26:22), cioè con un passato prossimo italiano. “Deve scrivere” traduce pure questo verbo perfetto e indica la certezza che l’azione venga portata a termine. (Num. 5:23; Deut. 17:18) In entrambi i casi tale traduzione rende correttamente l’idea di un’azione compiuta, ma non nel passato. Quindi il verbo attivo di per sé non esprime necessariamente l’elemento tempo. Il perfetto può rappresentare un’azione compiuta in qualsiasi periodo di tempo: passato, presente o futuro. L’imperfetto invece, pur ponendo l’azione in qualsiasi periodo di tempo, la vede sempre come incompleta.
B. Tempo
Anche se gli antichi ebrei erano senz’altro in grado di capire l’idea del tempo, nella loro lingua quest’idea è secondaria. Kyle M. Yates, in The Essentials of Biblical Hebrew (ed. 1954, p. 129), dice: “Il tempo com’è inteso in quasi tutte le lingue moderne non è lo stesso per la mentalità semitica. La cognizione del tempo di un’azione non è d’importanza capitale secondo l’ordine di idee ebraico. A una mente indogermanica è indispensabile collocare l’azione nella sua accentuatissima valutazione temporale. La condizione dell’azione intesa nella sua completezza o incompletezza era in genere sufficiente per i semiti e, in caso contrario, qualche termine dal significato temporale o storico avrebbe messo a fuoco il tempo”. Se, come indica la Bibbia, l’ebraico era la lingua originale parlata in Eden, questa mancanza di sottolineare il tempo del verbo può riflettere la veduta dell’uomo nella sua perfezione, quando Adamo aveva la prospettiva della vita eterna e la vita non era stata ridotta a soli settanta o ottant’anni. Geova Dio, che calcola il tempo con la massima precisione, si servì dell’ebraico come di un mezzo perfettamente idoneo a trasmettere al suo popolo la conoscenza dei suoi propositi.
Per tradurre in italiano, il fattore tempo del verbo è determinato dal contesto. Il contesto indica se l’azione descritta è avvenuta in passato, si svolge ora, o è ancora futura.
C. Modo
Il modo si riferisce al pensiero o sentimento di chi parla o scrive in relazione all’aspetto verbale ed è determinato dalla forma del verbo stesso e dal contesto. In ebraico si distinguono almeno tre modi che corrispondono a indicativo, soggiuntivo e imperativo.
L’indicativo presenta l’azione come certa. I verbi al perfetto di solito sono all’indicativo. Per esempio, nella frase “Dio creò i cieli”, il verbo è all’indicativo, trattandosi di una realistica descrizione di un avvenimento passato. — Gen. 1:1.
Il soggiuntivo invece indica un’ipotesi o condizione e ricorre di solito con i verbi all’imperfetto. La sua natura ipotetica può essere espressa sotto forma di possibilità, come in Genesi 13:16: “Se un uomo potesse contare... il tuo seme potrebbe esser numerato”. Oppure può manifestare un desiderio o un’eventualità ed essere espresso in italiano col futuro anteriore (Deut. 17:14), o anche riferirsi a qualche cosa che ‘si dovesse’ o ‘si dovrebbe’ fare. — I Cron. 12:32.
L’imperativo esprime un comando. L’azione è ovviamente incompiuta, qualche cosa che si deve fare; in ebraico questo modo del verbo deriva dall’imperfetto: Geova usò l’imperativo nel comandare: “Parla ai figli d’Israele”. — Lev. 1:2.
Alcuni vorrebbero aggiungere un quarto modo, derivato dal soggiuntivo: i cosiddetto iussivo. Esprime la volontà, cioè il desiderio, l’aspirazione o il sentimento di chi parla. Un esempio di questo si ha in Genesi 50:5 dove le parole di Giuseppe sono tradotte: “Vi prego, lasciatemi salire a seppellire mio padre”. Atri lo includono nel soggiuntivo.
D. Coniugazione
La radice verbale è la forma più semplice del verbo, l’“idea base”. Da questa derivano altre sei forme in cui il verbo può esprimere gli aspetti principali dell’idea base contenuta nella sua radice, cioè:
SEMPLICE INTENSIVO CAUSATIVO
(1) Attivo (3) Attivo (6) Attivo
(2) Passivo (4) Passivo (7) Passivo
(5) Riflessivo
Queste forme si ottengono con l’aggiunta di prefissi, raddoppiando certe lettere e con cambiamenti di vocale. La coniugazione del verbo ebraico è molto più regolare di quella dei verbi greci, latini o italiani. Lo stesso paradigma invariabile è seguito per tutti i verbi “forti”. (Anche i verbi “deboli” seguono un paradigma regolare). Notate nel prospetto alla pagina precedente come le lettere aggiunte e i cambiamenti di vocale rimangono costanti, indipendentemente dalle consonanti della radice verbale; le consonanti radicali sono indicate da lettere maiuscole.
SEMPLICE INTENSIVO CAUSATIVO
Qa·TaLʹ QiT·TeLʹ hiQ·TiLʹ
egli uccise egli uccise egli fece uccidere
(brutalmente)
*** *** ***
Ma·SHaLʹ MiSH·SHeLʹ hiM·SHiLʹ
ATTIVO egli governò egli governò egli fece governare
(con la forza)
*** *** ***
Ka·THaVʹ KiT·TeVʹ hiKH·THiVʹ
egli scrisse egli scrisse egli fece scrivere
(alacremente) (dettò)
_________________________________________________________________
niQ·TaLʹ QuT·TaLʹ hoQ·TaLʹ
egli fu ucciso egli fu ucciso egli fu indotto a
(brutalmente) uccidere
*** *** ***
niM·SHaLʹ MuSH·SHaLʹ hoM·SHaLʹ
PASSIVO egli fu egli fu governato egli fu indotto a
governato (con forza) governare
*** *** ***
niKH·THaVʹ KuT·TaVʹ hoKH·THaVʹ
(esso) fu (esso) fu scritto egli fu indotto a
scritto (alacremente) scrivere
----------------------------------------------------------------- hith·QaT·TeLʹ
egli si uccise
***
RIFLESSIVO hith·MaSH·SHeLʹ
egli si governò
***
hith·KaT·TeVʹ
egli si scrisse
E. Persona, numero, genere
Le variazioni di persona, numero e genere sono indicate da certi prefissi e suffissi uniti alla radice verbale; anche questi seguono un paradigma invariabile.
1. Nel perfetto
Per coniugare il perfetto si usano suffissi (più qualche cambiamento di vocale). Questo può essere illustrato dal verbo semplice perfetto QaTàL (uccidere):
(Singolare)
3ª persona maschile: Qa·TaLʹ egli uccise
3ª persona femminile: QaT·Lahʹ essa uccise
2ª persona maschile: Qa·TaLʹta tu uccidesti
2ª persona femminile: Qa·TaLetʹ tu uccidesti
1ª persona (m. e f.): Qa·TaLʹti io uccisi
(Plurale)
3ª persona (m. e f.): QaT·Luʹ essi uccisero
2ª persona maschile: QeTaL·temʹ voi uccideste
2ª persona femminile: QeTaL·tenʹ voi uccideste
1ª persona (m. e f.): Qa·TaLʹnu noi uccidemmo
2. Nell’imperfetto
Per coniugare l’imperfetto si usano prefissi e anche suffissi e cambiamenti di vocale:
(Singolare)
3ª persona maschile: yiQ·ToLʹ egli uccideva
3ª persona femminile: tiQ·ToLʹ essa uccideva
2ª persona maschile: tiQ·ToLʹ tu uccidevi
2ª persona femminile: tiQ·TeLiʹ tu uccidevi
1ª persona (m. e, f.): ʼeQ·ToLʹ io uccidevo
(Plurale)
3ª persona maschile; yiQ·TeLuʹ essi uccidevano
3ª persona femminile: tiQ·ToLʹnah esse uccidevano
2ª persona maschile: tiQ·TeLuʹ voi uccidevate
2ª persona femminile: tiQ·ToLʹnah voi uccidevate
1ª persona (m. e f.): niQ·ToLʹ noi uccidevamo
II Sostantivi
A. Origine
Come si è già detto, quasi tutti i vocaboli, inclusi i sostantivi, derivano da una radice verbale. La radice si può distinguere sia dall’ortografia che dal significato del nome.
B. Casi
I casi determinano la funzione dei nomi rispetto ad altri vocaboli della frase. Nell’ebraico biblico i casi di solito sono indicati da circonlocuzioni, cioè da espressioni indirette, più ché da speciali desinenze (come nel greco).
Il nominativo è indicato dalla posizione del sostantivo nella proposizione, dopo il verbo; questo si verifica anche per l’accusativo, che segue il nominativo e i termini che lo qualificano. Il dativo, l’ablativo, lo strumentale e il locativo sono indicati da certe preposizioni.
Il genitivo — o possessivo — è rappresentato in ebraico dallo “stato costrutto”, in cui più parole formano una singola idea. Per esempio, sus (“cavallo”) ha-’ìsh (“l’uomo”) si traduce “il cavallo dell’uomo”, essendo sottintesa la preposizione “di” o l’idea del genitivo possessivo.
C. Genere e numero
Esistono due generi: maschile e femminile. Il femminile si distingue generalmente dalla desinenza ah (pl. ohth) unita al nome, come ʼishshàh (donna), susòhth (cavalle).
In ebraico i numeri sono tre: singolare, plurale e duale. Il duale (identificato dal suffisso yim) si usa di solito per cose che compaiono in coppia, come mani (yadhàyim) e orecchi.
Anche gli aggettivi possessivi possono essere tutt’uno con i nomi. Quindi da sus che significa “cavallo” si ha susì che significa “mio cavallo”, e suskà “tuo cavallo”, ecc.
III Aggettivi
Gli aggettivi qualificativi derivano anch’essi da radici verbali. Infatti il verbo GaDHàL “crescere, diventare grande” è la radice dell’aggettivo GaDHòL “grande”. (In ebraico l’articolo determinativo è ha, l’articolo indeterminativo non esiste).
L’aggettivo può essere usato in uno di questi due modi:
(1) Può fungere da predicato nominale. In questo caso sta davanti al nome con cui concorda in genere e numero. La frase tohv haq-gòhl (lett. “buona la voce”) viene tradotta “la voce è buona”, aggiungendo il verbo “è”.
(2) O può essere usato come attributo. In questo caso sta dopo il nome, con cui non solo concorda in genere e numero ma è anche preceduto dallo stesso articolo determinativo. Quindi haq-gòhl hat-tòhv (lett. “la voce la buona”) significa “la buona voce”.
IV Waw
La lettera ebraica waw (ו) corrisponde generalmente alla congiunzione “e”. Questa “waw congiuntiva” è un prefisso che si unisce in modo inseparabile a nomi o verbi. La waw ricorre molto spesso in ebraico, ma non per mancanza di altre congiunzioni. Le altre congiunzioni però sono usate soltanto per dare speciale enfasi. Una ragione del loro uso limitato è spiegata dagli studiosi di ebraico Brown, Driver e Briggs in A Hebrew and English Lexicon of the Old Testament (ed. corretta del 1952, p. 252): “Il loro uso frequente era istintivamente ritenuto non consono alla delicatezza e grazia di movimento care all’orecchio ebraico; e perciò in [varie versioni] ricorrono continuamente termini come o, quindi, ma, nonostante, conciossiaché, perciò, così, infatti, affinché, dove l’ebr ha semplicemente ו [waw]”.
A. Con l’imperfetto
Quando una speciale forma di waw — detta “waw consecutiva” — è unita a un verbo all’imperfetto non ha semplice valore di congiunzione ma ha valore consecutivo, cioè indica la conseguenza di ciò che la precede. Lo scrittore o l’oratore si è raffigurato mentalmente una catena di avvenimenti, ciascuno dei quali è giudicato dal punto di vista del primo verbo, al perfetto. Per indicare tale continuità di azione ed evitare la monotonia nella traduzione, la waw che precede tali imperfetti non è tradotta semplicemente “e”, ma anche con altre congiunzioni, avverbi e locuzioni congiuntive, che si possono suddividere in quattro categorie, a seconda che indichino:
1. Successione di tempo: come le congiunzioni temporali allorché, appena, come, finché, fino a quando, mentre, quando; gli avverbi adesso, allora, ancora, dopo, ora; e anche finalmente, immediatamente, prontamente e successivamente.
2. Conseguenza logica: come le congiunzioni conclusive allora, dunque, ebbene, pertanto, quindi; e le consecutive che, così che, tanto che.
3. Causa logica: come le congiunzioni causali dal momento che, perché, poiché.
4. Contrasto logico: come le congiunzioni avversative anzi, eppure, ma, però.
A volte un verbo italiano che traduce un verbo ebraico all’imperfetto non è diverso da quello che traduce un verbo al perfetto. Ma il verbo ebraico all’imperfetto ha come prefisso una waw consecutiva, che viene tradotta con le espressioni summenzionate e in tal modo si conserva il significato fondamentale dell’imperfetto ebraico. Così viene resa l’idea di un’azione non finita, di successione, conseguenza, causa o contrasto.
Un esempio di questo è Genesi 1:3: “‘Si faccia luce’. Quindi si fece [wàyhi, imperfetto preceduto da waw] luce”. Per il lettore italiano “si fece” indica un’azione compiuta, ma la waw congiuntiva, qui tradotta “quindi” indica che questo è solo un momento di una narrazione che continua. Tale waw potrebbe anche essere resa “col tempo”, “dopo”, “infine”, ecc. In questo caso “si fece” luce dopo il “principio” menzionato al versetto uno. Quindi il contesto indica quando nel tempo ha luogo l’azione descritta.
B. Col perfetto
Un verbo al perfetto vuole una waw congiuntiva solo per collegarlo con qualsiasi altro verbo. Un verbo all’imperfetto con waw consecutiva indica un’azione che segue quella del verbo precedente. Invece un verbo al perfetto con la waw congiuntiva indica un’azione contemporanea a quella del verbo precedente. Alcuni lo chiamano “perfetto correlativo”. Un esempio di questo è Genesi 2:10 che descrive il fiume che usciva dall’Eden: “Si divideva [yipparèdh, verbo all’imperfetto] e diveniva [wehayàh, verbo “divenire” al perfetto introdotto da waw], per così dire, quattro capi”. Quindi, per così dire, si formarono quattro capi, ma nello stesso tempo il fiume “si divideva”. I due verbi esprimono azioni contemporanee e che, in effetti, sono la stessa cosa espressa in modi diversi.
TRASLITTERAZIONE
In questo caso si riferisce alla trascrizione dei caratteri dell’alfabeto ebraico con caratteri del nostro alfabeto. L’ebraico si scrive da destra a sinistra, ma per i lettori italiani la traslitterazione si legge da sinistra a destra. Seguono alcune regole generali seguite in questa pubblicazione:
Carattere Consonante Equivalente
Nome
א ʼàleph ʼ (spirito dolce)
בּ behth b
ב v
גּ gìmel g (con suono duro)
ג gh (aspirata)
דּ dàleth d
ד dh
ה heʼ h
ו waw w
ז zàyin z
ח hhehth hh
ט tehth t
י yohdh y
כּ kaph k
כ Final: ך kh
ל làmedh l
מ Final: ם mem m
נ Final: ן nun n
ס sàmekh s
ע ʽàyin ʽ (spirito aspro)
פּ peʼ p
פ Final: ף ph
צ Final: ץ tsadhèh ts
ק qohph q
ר rehsh r
שׂ sin s
שׁ shin sh
תּ taw t
ת th
Vocali
◌ ָ qàmets a (lunga)
◌ ַ pàthahh a (breve)
◌ ֵ tsèreh e (lunga)
◌ ֶ seghòhl e (breve)
◌ ִ hhìreq i (lunga)
◌ ֹ hhòhlem o (lunga)
◌ ָ qàmets hhatùph o (breve)
◌ ֻ qibbùts u (breve)
ִ shùreq u (lunga)
Semivocali
◌ ְ shewàʼ e suono indistinto
oppure e muta
◌ ֲ hhateph-pàthahh a
◌ ֱ hhateph-seghòhl e
◌ ֳ hhateph-qàmets o
CONSONANTI: Avrete notato che cinque lettere hanno una forma finale. Questa ricorre solo in fine di parola. Certe consonanti (ת ,פ ,כ ,ד ,ג ,ב) hanno sia un suono “dolce” o “aspirato” che un suono “duro”, quest’ultimo indicato da un punto all’interno della lettera stessa (תּ ,פּ ,כּ ,דּ ,גּ ,בּ). Tuttavia un punto in una di queste consonanti può anche indicare che dev’essere raddoppiata se è immediatamente preceduta da una vocale. Quindi גַּבַּי è gabbày. Quasi tutte le altre lettere (pur avendo un unico suono) sono doppie se hanno un puntino all’interno (per esempio, זּ è zz). Un’eccezione è la lettera he’ (ה), che a volte ha un puntino all’interno (הּ) quando ricorre in fine di parola; la he’, però, non è mai doppia.
Le consonanti waw e yohdh possono essere usate per formare vocali. La waw (ו) con sopra la vocale hhòhlem (·) ha valore di hhòhlem “lungo” (וֹ), traslitterato in questa pubblicazione come “oh”. וּ corrisponde a “u”; ma se c’è un altro segno vocalico sotto la lettera (וַּ) il punto indica che la waw dev’essere raddoppiata. Quindi בַּוַּי è bawwày; בּוּז è buz. Inoltre .י è traslitterata come “i”, non come “iy”; ..י come “eh” non “ey”; י ֶ come “ei” non “ey”.
Quando la kaph ricorre in fine di parola lo shewaʼʹ ( ְ) o il qàmets ( ְ) è scritto all’interno anziché sotto la lettera: ךָ ,ךְ.
Quando il punto vocalico corrispondente a “o” ( ֹ) ricorre dopo la שׂ (s), il punto vocalico coincide col punto in alto a sinistra della lettera sin, per cui ha una doppia funzione. Per questa ragione שׂרֵק si deve traslitterare sorèq. Similmente quando il punto vocalico corrispondente a “o” ( ֹ) ricorre davanti a שׁ (sh), il punto vocalico coincide col punto in alto a destra della lettera shin, e ha una doppia funzione. Infatti חשֶׁךְ si traslittera hhòshekh.
VOCALI: Tutte le vocali che compaiono in questa sezione della tabella vengono poste sotto la riga tranne hhòhlem (·), che si mette sopra, e shùreq ( ִ), che, come si è già detto, si trova a metà della waw (וּ = u). Il segno vocalico ( ָ) è usato per rappresentare sia il qàmets “a” che il qàmets hhatùph “o”. Se il segno vocalico ( ָ) ricorre in una sillaba chiusa non accentata dev’essere breve e si pronuncia “o”. Se ricorre in una sillaba aperta, o in una sillaba chiusa ma accentata, si pronuncia “a”. Quindi בָּל ? אֲשֶׁך sarà traslitterato kol-ʼashèr e non kal-ʼashèr.
SEMIVOCALI: Il corrispondente italiano indicato sopra è solo approssimativo. La pronuncia ebraica delle semivocali è in ogni caso un suono molto breve.
Quando lo shewà’ ( ְ) è sotto una consonante all’inizio di una sillaba, viene traslitterato con una o innalzata, come per esempio קְטל che sarebbe qetolʹ; quando è sotto una consonante alla fine di una sillaba è muto e serve per dividere la sillaba. Quindi יִקְטל è yigtòl.
Sillabe
La seguente citazione da Essentials of Biblical Hebrew di Yates (ed. 1954, pp. 17, 18) può essere utile per scomporre in sillabe le parole ebraiche: “In ebraico ogni sillaba comincia con una consonante e include sempre una vocale. Può anche includere una vocale e una semivocale, ma mai meno di una vocale, né più di una vocale e una semivocale”. Quindi קָטַל è composto di due sillabe, una קָ (qa) e l’altra טַל (tal). Entrambe le sillabe contengono una vocale e iniziano con una consonante. Invece בְּרִית (berithʹ) ha una sola sillaba poiché contiene una sola vocale (. = i); la e innalzata ( ְ) è una semivocale.
Ci sono due apparenti eccezioni alla regola che una sillaba inizia solo con consonanti:
(1) Quando la parola inizia con la waw congiuntiva וּ (u). Quindi וּבֵן è uvèn.
(2) Con un “pàthahh furtivo”, cioè la vocale pàthahh ( ַ) sotto le consonanti ע ,ח ,הּ, quando ricorrono in fine di parola; in questo caso il pàthahh è pronunciato prima della consonante. Quindi רוּחַ non è ruhhà, ma rùahh.
A volte una lineetta orizzontale (־), simile al nostro trattino, unisce due parole o più parole, che vengono considerate come una parola sola. Infatti בָּאֲשֶּׁר è kol-ʼashèr.
Accenti
Le parole ebraiche hanno l’accento sull’ultima o sulla penultima sillaba. Quasi tutte hanno l’accento sull’ultima sillaba e, in tal caso, l’accento di solito non viene indicato nei vocabolari. Quindi קָטַל (qa·talʹ) s’intende che ha l’accento sull’ultima sillaba (טַל = tal). Le parole che hanno l’accento sulla penultima sillaba sono spesso contrassegnate dal segno (›) sopra la consonante, o (‹) sotto la sillaba che si deve accentare. Intatti קָ‹טַלְתִּי (qa·talʹti) ha l’accento sulla penultima sillaba.
In questa pubblicazione, nella traslitterazione un accento grave (‵) indica la vocale su cui porre l’accento.