Geova
(Gèova).
Nome proprio di Dio. (Isa. 42:8; 54:5) Anche se nelle Scritture gli sono attribuiti titoli descrittivi come “Dio”, “Signore”, “Creatore”, “Padre”, “l’Onnipotente”, “l’Altissimo” e altri, la sua personalità e i suoi attributi — chi e che cosa è — sono pienamente espressi e riassunti solo da questo nome personale. — Sal. 83:18.
CORRETTA PRONUNCIA DEL NOME DIVINO
“Geova” è la più nota forma italiana del nome divino, anche se in prevalenza gli ebraicisti preferiscono la forma “Yahweh” o “Jahweh”. Nei manoscritti ebraici più antichi compare il nome scritto con quattro consonanti comunemente chiamato il Tetragramma (dal greco tètra, che significa “quattro”, e gràmma, “lettera”). Queste quattro lettere (scritte da destra a sinistra) sono יהוה e si possono traslitterare con le lettere YHWH (o, secondo altri, YHVH).
Le consonanti ebraiche del nome sono dunque note. Il problema è quali vocali unire a tali consonanti. I segni vocalici sono stati introdotti nell’ebraico solo nella seconda metà del I millennio E.V. Tuttavia i segni vocalici che compaiono nei manoscritti ebraici da quell’epoca in poi non permettono di determinare quali vocali dovrebbero comparire nel nome divino, questo a motivo di una superstizione religiosa che risaliva a secoli prima.
Una superstizione nasconde il nome
A un certo punto sorse fra gli ebrei l’idea superstiziosa che fosse sbagliato anche solo pronunciare il nome divino (rappresentato dal Tetragramma). Non si sa con precisione quale ragione fosse adotta in origine per non usare più il nome. Secondo alcuni veniva insegnato che il nome era troppo sacro per essere pronunciato da labbra imperfette. Eppure nelle Scritture Ebraiche stesse non esistono prove che alcuno dei veri servitori di Dio abbia mai avuto qualche esitazione a pronunciarne il nome. Documenti ebraici non biblici, come le cosiddette Lettere di Lachis, rivelano che verso la fine del VII secolo a.E.V. il nome era usato in Palestina nella normale corrispondenza. E i Papiri di Elefantina, documenti di una colonia ebraica dell’Alto Egitto che risalgono al V secolo a.E.V., pure contengono il nome divino, nonostante fossero in gran parte documenti di natura secolare.
Quando si affermò tale superstizione?
Come sono incerte la ragione o le ragioni addotte in origine per smettere di usare il nome divino, così c’è molta incertezza anche circa l’epoca in cui tale idea superstiziosa si sia veramente affermata. Alcuni sostengono che risalga all’esilio in Babilonia (607–537 a.E.V.). Tale teoria si basa però sul presunto minor uso del nome da parte degli ultimi scrittori delle Scritture Ebraiche, opinione che a un più attento esame risulta infondata. Malachia per esempio è uno degli ultimi libri delle Scritture Ebraiche messo per iscritto (nella seconda metà del V secolo a.E.V.) e dà grande risalto al nome divino.
Molte opere di consultazione affermano che il nome smise di essere usato verso il 300 a.E.V. Una prova, si diceva, era l’assenza del Tetragramma (o di una sua traslitterazione) nella Settanta, traduzione greca delle Scritture Ebraiche iniziata verso il 280 a.E.V. È vero che le copie più complete della Settanta note attualmente seguono effettivamente la consuetudine di sostituire al Tetragramma i termini greci Kỳrios (Signore) o Theòs (Dio). Ma tali importanti manoscritti risalgono solo al IV e V secolo E.V. Copie più antiche, benché frammentarie, scoperte di recente dimostrano che anteriori copie della Settanta contenevano il nome divino.
I frammenti di un rotolo papiraceo, catalogati come Papiro Fouad 266, della seconda parte del libro di Deuteronomio, contengono il Tetragramma, scritto in caratteri ebraici, ogni volta che ricorre nel testo ebraico tradotto. Questo papiro risale secondo gli studiosi al II o I secolo a.E.V., è cioè di quattro o cinque secoli più antico dei manoscritti già menzionati.
Quindi, almeno in forma scritta, non c’è alcuna valida prova che il nome divino fosse scomparso o caduto in disuso prima dell’Era Volgare. Nel I secolo E.V. compaiono i primi segni di un atteggiamento superstizioso nei confronti del nome. Giuseppe Flavio, storico ebreo di famiglia sacerdotale, nel riferire la rivelazione di Dio a Mosè presso il rovo ardente, dice: “Allora Dio gli dichiarò il suo santo nome, che non era mai stato prima rivelato agli uomini; di questo non mi è lecito dire di più”. (Antichità giudaiche, Libro II, cap. XII, 4) Le parole di Giuseppe però, oltre a essere inesatte circa la conoscenza del nome divino prima di Mosè, sono vaghe e non indicano chiaramente quale fosse nel I secolo l’atteggiamento generale in quanto a pronunciare o usare il nome divino.
La Mishnàh ebraica, collezione di tradizioni e insegnamenti rabbinici, è un po’ più esplicita. La sua compilazione è attribuita a Rabbi Yehuda ha-Nasi (Giuda il Patriarca), vissuto nel II e III secolo E.V. Parte del contenuto della Mishnàh si riferisce chiaramente a condizioni precedenti alla distruzione di Gerusalemme e del tempio nel 70 E.V. Qui troviamo alcune tradizioni relative al pronunciare il nome divino.
In relazione all’annuale giorno di espiazione, Yoma, 6, 2, dichiara: “E quando i sacerdoti e il popolo che erano nel Corrile del Tempio udivano il Nome stesso pronunciato dalla bocca del Sommo Sacerdote, solevano inginocchiarsi e inchinarsi e prostrarsi e dire: ‘Benedetto sia il nome della gloria del suo regno per i secoli dei secoli!’” Delle quotidiane benedizioni sacerdotali, Sotah, 7, 6, dice: “. . . nel Tempio pronunciavano il Nome com’era scritto, ma nelle province usavano un termine sostitutivo”. Sanhedrin, 7, 5, dichiara che un bestemmiatore non era colpevole ‘a meno che non pronunciasse il Nome’, e che in un processo relativo a un’accusa di bestemmia veniva usato un nome sostitutivo finché non si erano ascoltate tutte le testimonianze; allora veniva chiesto in privato al testimone principale di ‘dire esattamente quello che aveva sentito’, usando si presume il nome divino. Sanhedrin, 10, 1, nell’elencare coloro “che non hanno parte nel mondo avvenire”, precisa: “Abba Saul dice: Anche chi pronuncia il Nome con le sue proprie lettere”. Ma nonostante tali vedute negative, nella prima parte della Mishnàh si trova anche l’ingiunzione positiva che “un uomo dovrebbe salutare il suo simile con il Nome [di Dio]”, e viene quindi citato l’esempio di Boaz (Rut 2:4). — Berakhòth, 9, 5.
Prese per ciò che valgono, tali idee tradizionali possono rivelare la tendenza superstiziosa a evitare l’uso del nome divino qualche tempo prima della distruzione del tempio di Gerusalemme nel 70 E.V. Ma anche in tal caso, viene esplicitamente dichiarato che erano proprio i sacerdoti a usare un nome sostitutivo al posto del nome divino, e questo solo nelle province. Inoltre il valore storico delle tradizioni contenute nella Mishnàh è dubbio.
Non c’è dunque alcuna valida ragione per attribuire a un tempo precedente al I e II secolo E.V. l’affermarsi dell’idea superstiziosa che vietava di pronunciare il nome divino. Ma a un certo punto, nel leggere le Scritture Ebraiche nella lingua originale, il lettore ebreo, invece di pronunciare il nome divino rappresentato dal Tetragramma, cominciò a sostituirlo con ’Adhonày (Signore) o ’Elohìm (Dio). Questo è evidente dal fatto che, quando nella seconda metà del I millennio E.V. furono introdotti i segni vocalici, i copisti ebrei inserirono nel Tetragramma i segni vocalici di ’Adhonày o di ’Elohìm, evidentemente per avvertire il lettore di pronunciare quelle parole invece del nome divino. Se usava copie più tarde della Settanta, il lettore avrebbe trovato al posto del Tetragramma i termini Kỳrios e ho Theòs.
Le traduzioni in altre lingue, come la Vulgata latina, seguirono l’esempio di tali copie più tarde della Settanta. La versione italiana di Giovanni Diodati del 1607, pur essendo tradotta dai testi originali, non contiene il nome divino. E neanche la versione cattolica di Antonio Martini del 1778 fatta dichiaratamente “secondo la Volgata”.
La pronuncia “Geova” e “Yahweh”
Unendo alle quattro consonanti del Tetragramma i segni vocalici di ’Adhonày e ’Elohìm si ebbe la pronuncia Yehowàh e Yehowìh, la prima delle quali ha dato origine alla forma latinizzata “Jehova” (Geova). Il primo uso documentato di questa forma risale al XIII secolo E.V. Raimondo Martini, un frate domenicano spagnolo, la usò nel 1270 nel suo libro Pugio Fidei.
Gli ebraicisti in genere preferiscono “Yahweh” ritenendola la pronuncia più probabile. Rilevano che la forma abbreviata del nome è Yah (Jah nella forma latinizzata), che ricorre nel Salmo 89:8 e nell’espressione Hallu–Yàh (che significa “Lodate Iah!”). (Sal. 104:35; 150:1, 6) Anche le forme Yehòh, Yoh, Yah e Yàhu che si trovano nella grafia ebraica dei nomi Giosafat, Ieoiada, Sefatia e altri, possono tutte essere derivate da Yahweh. Le traslitterazioni greche del nome ad opera di scrittori cristiani primitivi seguono una tendenza simile con la grafia Iabè e Iaouè. Ma poiché i dotti non sono ancora d’accordo sull’argomento, alcuni preferiscono altre pronunce, come Iaveh, Jahve, Jahweh.
Dal momento che finora non si conosce con certezza la pronuncia esatta, non sembra che ci sia alcuna ragione per abbandonare la nota forma italiana “Geova” a favore di qualche altra forma suggerita. Se si facesse tale cambiamento, per essere coerenti si dovrebbe anche cambiare l’ortografia e la pronuncia di moltissimi altri nomi che ricorrono nelle Scritture: Geremia dovrebbe diventare Yirmeyàh, Isaia diventerebbe Yesha‘yàhu, e Gesù sarebbe Yehohshùa‘ (in ebraico) o Iesoùs (in greco). Lo scopo delle parole è quello di rappresentare delle idee; in italiano il nome “Geova” identifica il vero Dio, rende oggi quest’idea meglio di qualunque altro termine.
IMPORTANZA DEL NOME
Molti moderni studiosi e traduttori della Bibbia preferiscono seguire la tradizione di eliminare il nome proprio di Dio. Non solo sostengono che l’incerta pronuncia giustifichi tale linea di condotta, ma affermano anche che la supremazia e unicità del vero Dio rendono superfluo che abbia un nome particolare. Tale opinione è simile a quella di Filone, filosofo ebreo di Alessandria d’Egitto, che ebbe una certa notorietà nel I secolo E.V. Egli insegnava che Dio doveva rimanere innominabile essendo indefinibile e incomprensibile. Idee del genere non hanno alcun sostegno nelle Scritture ispirate, né in quelle precristiane né nelle Scritture Greche Cristiane.
La frequenza stessa con cui il nome ricorre attesta l’importanza che ha per l’autore della Bibbia, essendo il Suo nome. Nel solo libro dei Salmi ricorre 749 volte. Nelle Scritture il nome ricorre molto più spesso di qualsiasi titolo che gli è attribuito, come Signore o Dio.
Complessivamente il nome Geova ricorre 6.973 volte nella Traduzione del Nuovo Mondo delle Scritture Ebraiche. Questo numero include le 134 volte in cui in quasi tutti i testi masoretici (133 in quello di Kittel) i soferim hanno sostituito il Tetragramma con ’Adhonày e le otto volte in cui l’hanno sostituito con ’Elohìm. Include anche le due volte (Isa. 34:16; Zacc. 6:8) in cui, secondo le note in calce di Kittel, la yohdh (י) finale del termine ebraico starebbe per “Geova”. Ma questo non è il caso di Giudici 19:18. Il numero complessivo comprende anche le sei volte in cui il nome ricorre nelle soprascritte dei Salmi, le tre volte in cui il Tetragramma si trova in nomi composti, e tre espressioni della Settanta dove, secondo recenti traduzioni, è giusto che ricorra il nome Geova. — Vedi Deuteronomio 30:16; II Samuele 15:20; II Cronache 3:1, Ga, Mar, NM.
Pure degna di nota è l’importanza data ai nomi stessi nelle Scritture Ebraiche e presso i popoli semiti. Il professor G. T. Manley fa notare: “Uno studio del termine ‘nome’ nell’Antico Testamento rivela quanto sia importante in ebraico. Il nome non è una semplice etichetta, ma indica la vera personalità di colui al quale appartiene . . . quando uno pone il suo ‘nome’ su una cosa o su un’altra persona, questa viene a trovarsi sotto la sua influenza e protezione”. — Confronta Genesi 27:36; I Samuele 25:25; Salmo 20:1; Proverbi 22:1; vedi NOME.
“Dio” e “Padre” sono nomi comuni
Il titolo “Dio” non è un nome proprio né esclusivo (si può fare un dio anche del proprio ventre; Filip. 3:19). Nelle Scritture Ebraiche lo stesso termine (’Elohìm) si applica a Geova, il vero Dio, e anche a falsi dèi, come il dio filisteo Dagon (Giud. 16:23, 24; I Sam. 5:7) e il dio assiro Nisroc. (II Re 19:37) Per un ebreo dire a un filisteo o a un assiro che adorava “Dio [’Elohìm]” non sarebbe ovviamente bastato a indentificare la Persona a cui era rivolta la sua adorazione.
Alla voce JEHOVAH, The Imperial Bible-Dictionary (Vol. I, p. 856) ben illustra la differenza fra Elohim (Dio) e Geova. Del nome Geova dice: “È sempre un nome proprio, che distingue Dio in persona e solo lui; mentre Elohim ha più il carattere di un nome comune, che senz’altro distingue di solito, ma non necessariamente né invariabilmente, il Supremo. . . . Un ebreo può dire il Elohim, il vero Dio, in contrapposizione a tutti i falsi dèi; ma non dirà mai il Geova, poiché è il nome del vero Dio soltanto. Dice ripetutamente mio Dio . . . ; ma mai mio Geova, poiché dicendo mio Dio intende Geova. Parla del Dio di Israele, ma mai del Geova di Israele, poiché non c’è altro Geova. Parla del Dio vivente, ma mai del Geova vivente, poiché non può concepire Geova se non vivente”.
Lo stesso dicasi del termine greco per Dio, ho Theòs. Si riferiva tanto al vero Dio che a dèi pagani come Zeus ed Ermes (i romani Giove e Mercurio). (Confronta Atti 14:11-15). Le parole di Paolo in I Corinti 8:4-6 rispecchiano la vera situazione: “Benché ci siano quelli che son chiamati ‘dèi’, sia in cielo che sulla terra, come ci sono molti ‘dèi’ e molti ‘signori’, effettivamente c’è per noi un solo Dio, il Padre, dal quale sono tutte le cose, e noi per lui”. In questo XX secolo si continua a credere in numerosi dèi e questo rende indispensabile distinguere il vero Dio.
Paolo menziona “Dio, il Padre”, ma questo non significa che il nome del vero Dio sia “Padre”, poiché il termine “padre” si applica a ogni genitore umano e descrive anche altre relazioni umane. (Rom. 4:11, 16; I Cor. 4:15) Al Messia viene dato il titolo “Padre eterno”. (Isa. 9:6) Gesù chiamò Satana “padre” di certi oppositori accaniti. (Giov. 8:44) Il termine veniva applicato anche agli dèi delle nazioni, tanto che il dio greco Zeus era rappresentato nella poesia omerica come il grande dio padre. Che “Dio, il Padre” abbia un nome, nome diverso da quello di suo Figlio, è spiegato in numerosi versetti. (Matt. 28:19; Riv. 3:12; 14:1) Paolo conosceva il nome personale di Dio, Geova, che si trova nella descrizione della creazione in Genesi, citata da Paolo nei suoi scritti. Tale nome, Geova, distingue “Dio, il Padre” (confronta Isaia 64:8), rendendo così impossibile qualsiasi tentativo di fondere o confondere la sua identità e persona con quella di chiunque altro a cui si possa attribuire il titolo “dio” o “padre”.
Non è un “dio tribale”
Geova è chiamato “l’Iddio d’Israele” e ‘l’Iddio dei loro antenati’. (I Cron. 17:24; Eso. 3:16) Ma neanche tale intima associazione con gli ebrei e con la nazione israelita è una ragione per dire che sia il nome di un “dio tribale”, come afferma qualcuno. L’apostolo Paolo scriveva: “È egli l’Iddio dei soli Giudei? Non lo è anche delle persone delle nazioni? Sì, anche delle persone delle nazioni”. (Rom. 3:29) Geova non è solo “l’Iddio dell’intera terra” (Isa. 54:5) ma anche il Dio dell’universo, “il Fattore del cielo e della terra”. (Sal. 124:8) Il patto di Geova con Abraamo, stipulato quasi duemila anni prima dei giorni di Paolo, prometteva benedizioni a persone di tutte le nazioni, mostrando l’interesse di Dio per tutto il genere umano. — Gen. 12:1-3; confronta Atti 10:34, 35; 11:18.
Geova Dio alla fine rigettò l’infedele nazione dell’Israele carnale. Ma il suo nome sarebbe rimasto nella nuova nazione dell’Israele spirituale, la congregazione cristiana, anche quando quella nuova nazione cominciò a includere i non ebrei. Presiedendo un’assemblea cristiana a Gerusalemme il discepolo Giacomo disse che Dio aveva rivolto “l’attenzione alle nazioni [non ebraiche] per trarne un popolo per il suo nome”. Come prova che ciò era stato predetto, Giacomo citò quindi una profezia del libro di Amos in cui ricorre due volte il nome di Geova. — Atti 15:2, 12-18; Amos 9:11, 12.
IL NOME NELLE SCRITTURE GRECHE CRISTIANE
Alla luce di quanto detto finora, sembra molto strano constatare che le copie manoscritte esistenti del testo originale delle Scritture Greche Cristiane non contengano il nome divino per intero. Perciò non compare in quasi tutte le traduzioni del cosiddetto “Nuovo Testamento”. Eppure il nome ricorre in forma abbreviata nell’espressione “Alleluia” in Rivelazione 19:1, 3, 4, 6 (Di; Ma; CEI; Ga; VR); l’invito “Lodate Iah!” (NM) fatto da figli spirituali di Dio indica chiaramente che il nome divino non era caduto in disuso: era importante e pertinente come lo era stato in epoca precristiana. Perché allora non compare nella forma intera nelle Scritture Greche Cristiane?
L’argomento addotto per molto tempo era che gli scrittori ispirati delle Scritture Greche Cristiane citavano le Scritture Ebraiche dalla Settanta, e dal momento che quella versione sostituiva al Tetragramma i termini Kỳrios o Theòs, tali scrittori non usarono il nome Geova. Com’è stato spiegato tale argomento non è più valido. Osservando che i più antichi frammenti della Settanta conservano il nome divino nella forma ebraica, il dottor Paul E. Kahle dice: “Ora sappiamo che il testo greco della Bibbia [la Settanta] in quanto scritto da ebrei per ebrei non traduceva il nome divino con kỳrios, ma in tali MSS [manoscritti] era conservato il Tetragramma scritto in caratteri ebraici o greci. Furono i cristiani a sostituire il Tetragramma con kỳrios, quando il nome divino scritto in caratteri ebraici non era più comprensibile”. (The Cairo Geniza, ed. 1959, pp. 222, 224) Quando avvenne questo cambiamento nelle traduzioni greche delle Scritture Ebraiche?
Evidentemente avvenne nei secoli successivi alla morte di Gesù e degli apostoli. Nella versione greca di Aquila, che risale circa al 128 E.V., compariva ancora il Tetragramma in caratteri ebraici. Verso il 245 E.V., il noto studioso Origene produsse la sua Esapla, che su sei colonne contiene le ispirate Scritture Ebraiche, (1) nell’originale ebraico e aramaico, accompagnato da (2) una traslitterazione in greco, e dalle versioni greche (3) di Aquila, (4) di Simmaco, (5) dei Settanta, e (6) di Teodozione. In base alle copie frammentarie pervenuteci, il professor W. G. Waddell dice: “Nell’Esapla di Origene . . . le versioni greche di Aquila, Simmaco e LXX rappresentavano tutte JHWH con ΠΙΠΙ; nella seconda colonna dell’Esapla il Tetragramma era scritto in caratteri ebraici (cfr. il palinsesto ambrosiano, edito da Giovanni Mercati nel 1896)”. (The Journal of Theological Studies, Vol. XLV, luglio-ottobre 1944, pp. 158, 159) Altri ritengono che il testo originale dell’Esapla di Origene contenesse il Tetragramma in caratteri ebraici in tutte le colonne. Origene stesso affermava che “nei manoscritti più fedeli IL NOME è scritto in caratteri ebraici, vale a dire non in ebraico moderno ma arcaico”.
Ancora nel IV secolo, Girolamo, il traduttore della Vulgata latina, dice nel suo Prologus Galeatus introducendo i libri di Samuele e Malachia: “In certi volumi greci troviamo tuttora le quattro lettere del nome di Dio (יהוה) scritte in caratteri antichi”. In una lettera scritta a Roma nel 384 E.V., Girolamo riferisce che, quando incontravano le lettere ebraiche del Tetragramma (יהוה) in copie della Settanta, “certi ignoranti, a motivo della somiglianza dei caratteri . . . erano soliti pronunciarli Pi Pi [confondendoli coi caratteri greci ΠΙΠΙ]”.
I cosiddetti ‘cristiani che sostituirono il Tetragramma con Kỳrios’ nelle copie della Settanta non erano i primi discepoli di Gesù. Erano persone vissute in secoli successivi, quando la predetta apostasia si era già affermata e aveva corrotto i puri insegnamenti cristiani. — II Tess. 2:3; I Tim. 4:1.
Usato da Gesù e dai discepoli
Ai giorni di Gesù e dei discepoli il nome divino compariva senz’altro nelle copie delle Scritture, sia nei manoscritti in ebraico che in quelli in greco. Gesù e i discepoli usavano dunque il nome divino nel parlare e nello scrivere? Dal momento che Gesù condannava le tradizioni farisaiche (Matt. 15:1-9), sarebbe del tutto irragionevole concludere che si lasciassero influenzare al riguardo da idee farisaiche (come quelle riportate nella Mishnàh). Il nome stesso di Gesù significa “Salvezza di Iah [Geova]”. Gesù aveva detto: “Sono venuto nel nome del Padre mio” (Giov. 5:43); aveva insegnato ai suoi seguaci a pregare: “Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome” (Matt. 6:9); le sue opere, aveva detto, erano compiute “nel nome del Padre” (Giov. 10:25); e in preghiera, la sera prima di morire, disse che aveva reso manifesto ai discepoli il nome del Padre suo e chiese: “Padre santo, vigila su di loro a motivo del tuo nome”. (Giov. 17:6, 11, 12, 26) Perciò, quando citava o leggeva le Scritture Ebraiche, Gesù certamente usava il nome divino, Geova. (Confronta Matteo 4:4, 7, 10 con Deuteronomio 8:3; 6:16; 6:13; Matteo 22:37 con Deuteronomio 6:5; Matteo 22:44 con Salmo 110:1; e Luca 4:16-21 con Isaia 61:1, 2). Logicamente i discepoli di Gesù, fra cui gli scrittori ispirati delle Scritture Greche Cristiane, avrebbero seguito in questo il suo esempio.
Perché allora il nome non compare nei manoscritti delle Scritture Greche Cristiane o del cosiddetto “Nuovo Testamento” che ci sono prevenuti? Evidentemente perché quando furono fatte quelle copie (dal III secolo E.V. in poi) il testo originale degli scritti degli apostoli e dei discepoli era stato alterato. Il nome divino nella forma del Tetragramma era stato senza dubbio sostituito con Kỳrios e ho Theòs da copisti successivi, proprio come era avvenuto nelle copie più tarde della traduzione dei Settanta delle Scritture Ebraiche.
Il nome divino nelle traduzioni
Riconoscendo come stavano le cose, alcuni traduttori hanno usato il nome “Geova” nel tradurre le Scritture Greche Cristiane. The Emphatic Diaglott, traduzione inglese del XIX secolo ad opera del grecista Benjamin Wilson, contiene diverse volte il nome Geova (Jehovah), specie dove gli scrittori cristiani citavano le Scritture Ebraiche. Ma già nel XIV secolo il Tetragramma aveva cominciato a essere usato in traduzioni delle Scritture Cristiane in ebraico, a partire dalla traduzione ebraica di Matteo ad opera di un ebreo spagnolo di nome Shem Tob ben Shaprut. Nella sua traduzione, ogni volta che Matteo citava le Scritture Ebraiche, riporta il Tetragramma in tutti i casi in cui ricorre. Altre diciannove versioni ebraiche hanno seguito poi la stessa norma.
In quanto alla correttezza di tale linea di condotta, notate la seguente dichiarazione fatta prima del ritrovamento di manoscritti comprovanti che la Settanta conteneva in origine il nome Geova (R. B. Girdlestone, Synonyms of the Old Testament): “Se quella versione [LXX] avesse ritenuto il termine [Geova], oppure avesse usato un termine greco per Geova e un altro per Adonai, tale uso sarebbe stato senz’altro seguito nei discorsi e nelle argomentazioni del N. T. Quindi nostro Signore, nel citare il 110º Salmo, invece di dire ‘Il Signore ha detto al mio Signore’, avrebbe potuto dire: “Geova ha detto ad Adonì’”.
Proseguendo il ragionamento (che ora risulta basato su fatti reali) aggiunge: “Supponiamo che uno studioso cristiano stesse traducendo in ebraico il Testamento Greco: ogni volta che incontrava il termine Κύριος , egli avrebbe dovuto considerare se nel contesto c’era qualche cosa a indicarne il vero corrispondente ebraico; e questa è la difficoltà che sarebbe sorta nel tradurre il N. T. in qualsiasi lingua se il titolo Geova fosse stato lasciato nell’A. T. [LXX]. Le Scritture Ebraiche avrebbero costituito una norma in molti brani: infatti ogni volta che ricorre l’espressione ‘l’angelo del Signore’, sappiamo che il termine Signore rappresenta Geova; si poteva giungere a una simile conclusione per l’espressione ‘la parola del Signore’, secondo il precedente stabilito dall’A. T.; e così anche nel caso del titolo ‘il Signore degli Eserciti’. Quando invece ricorre l’espressione ‘Mio Signore’ o ‘Nostro Signore’, dovremmo sapere che sarebbe inammissibile il termine Geova, e si dovrebbe usare Adonai o Adonì”. Per questo motivo traduzioni delle Scritture Greche (già menzionate) contengono il nome Geova.
Notevole a questo riguardo è la Traduzione del Nuovo Mondo, usata in questa pubblicazione, in cui il nome divino nella forma “Geova” ricorre 237 volte nelle Scritture Greche Cristiane. Com’è già stato spiegato, ci sono valide ragioni per fare questo.
ANTICO USO DEL NOME E SUO SIGNIFICATO
I versetti di Esodo 3:13-16 e 6:3 sono spesso stati erroneamente citati per dimostrare che il nome di Geova fu rivelato per la prima volta a Mosè qualche tempo prima dell’esodo dall’Egitto. È vero che Mosè aveva chiesto: “Supponi che ora io sia venuto dai figli d’Israele e in effetti io dica loro: ‘L’Iddio dei vostri antenati mi ha mandato a voi’, e che essi in effetti mi dicano: ‘Qual è il suo nome?’ Che cosa dirò loro?” Ma questo non significa che lui o gli israeliti non conoscessero il nome di Geova. Il nome stesso di Iochebed madre di Mosè significa “Geova è gloria”. (Eso. 6:20) La domanda di Mosè probabilmente era dovuta alle circostanze in cui si trovavano i figli di Israele. Da diversi decenni erano in dura schiavitù e non c’era segno che sarebbe stata alleviata. Dubbio, scoraggiamento e poca fede nel proposito e nel potere di Dio di liberarli si erano molto probabilmente insinuati fra loro. (Nota anche Ezechiele 20:7, 8). Che Mosè dicesse semplicemente che era venuto nel nome di “Dio” (’Elohìm) o del “Signore” (’Adhonày) poteva non significare molto per gli israeliti sofferenti. Sapevano che gli egiziani avevano i loro dèi e signori e senza dubbio questi li avevano scherniti dicendo che i loro dèi erano superiori al Dio degli israeliti.
Inoltre si deve ricordare che allora i nomi avevano molta importanza e non erano semplici “etichette” che identificavano l’individuo come avviene oggi. Mosè sapeva che il nome di Abramo (che significa “padre di esaltazione”) era stato cambiato in Abraamo (che significa “padre di una moltitudine”), cambiamento dovuto al proposito di Dio per Abraamo. Anche il nome di Sarai era stato cambiato in Sara e quello di Giacobbe in Israele, e in ogni caso il cambiamento rivelava qualche cosa di fondamentale e profetico circa il proposito di Dio per loro. Mosè avrebbe potuto ben chiedersi se ora Geova si sarebbe rivelato sotto un nome nuovo per far luce sul suo proposito di liberare Israele. Presentarsi agli israeliti nel “nome” di Colui che lo mandava avrebbe indicato che Mosè era il Suo rappresentante, e la misura dell’autorità con cui avrebbe parlato sarebbe stata determinata da quel nome o proporzionata a quello che rappresentava. (Confronta Esodo 23:20, 21; I Samuele 17:45). Perciò la domanda di Mosè non era senza senso.
In ebraico la risposta di Dio fu “ʼEhyèh ashèr ʼehyèh”. Anche se alcune traduzioni rendono l’espressione “IO SONO QUELLO CHE SONO”, il verbo ebraico (hayàh) da cui deriva il termine ʼehyèh non significa semplicemente esistere. Significa piuttosto venire all’esistenza, accadere, verificarsi, divenire, assumere (un attributo), entrare in (una condizione) o costituire. Infatti la versione italiana di S. D. Luzzatto (1872) dice fra parentesi: “Sarò quel che sarò, vale a dire: Farò per voi ciò che mai non feci sinora” (vedi anche la traduzione inglese di Isaac Leeser e la nota in calce della RS), mentre la Traduzione del Nuovo Mondo ha “IO MOSTRERÒ D’ESSERE CIÒ CHE MOSTRERÒ D’ESSERE”. Geova aggiunse quindi: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘IO MOSTRERÒ D’ESSERE mi ha mandato a voi’”. — ESO. 3:14.
Questo non cambiava affatto il nome di Dio, ma solo permetteva di comprenderne meglio la personalità, come dimostrano le sue successive parole: “Devi dire questo ai figli d’Israele: ‘Geova l‘Iddio dei vostri antenati, l’Iddio di Abraamo, l’Iddio d’Isacco e l’Iddio di Giacobbe, mi ha mandato a voi’. Questo è il mio nome a tempo indefinito, e questo è il memoriale di me di generazione in generazione”. (Eso. 3:15; confronta Salmo 135:13; Osea 12:5). Il nome Geova (יהוה) si ritiene derivi dallo stesso verbo (hayàh [היה]) da cui deriva ʼehyèh, e alcuni ebraicisti fanno notare che il nome significa letteralmente “Egli causa il divenire [o fa accadere]”. Questo rivelerebbe Geova come Colui che adempie le promesse, Colui che invariabilmente causa la realizzazione del suo proposito. Solo il vero Dio poteva legittimamente e autenticamente avere tale nome.
Questo aiuta a capire il senso delle successive parole di Geova a Mosè: “Io sono Geova. E apparivo ad Abraamo, a Isacco e a Giacobbe come Dio Onnipotente, ma rispetto al mio nome Geova non mi feci conoscere da loro”. (Eso. 6:2, 3, NW) Dato che il nome di Geova era stato usato molte volte dai patriarchi antenati di Mosè, è evidente che Dio intendeva dire che a loro si era manifestato quale Geova solo in modo limitato. Per esempio, chi aveva conosciuto l’uomo Abramo non poteva dire di averlo realmente conosciuto come Abraamo (padre di una moltitudine) finché aveva un solo figlio, Ismaele. Quando nacquero Isacco e altri figli, e cominciarono ad avere una discendenza, il nome Abraamo assunse maggior significato o importanza. Così anche il nome Geova avrebbe ora potuto assumere un significato più ampio per gli israeliti.
“Conoscere” non significa necessariamente essere solo al corrente o informato in merito a qualche cosa o qualcuno. Lo stolto Nabal conosceva il nome di Davide, eppure chiese “Chi è Davide?” volendo intendere “Che importanza ha Davide?” (I Sam. 25:9-11; confronta II Samuele 8:13). Anche il faraone aveva detto a Mosè: “Chi è Geova, così che io debba ubbidire alla sua voce e mandar via Israele? Io non conosco affatto Geova e, per di più, non manderò via Israele”. (Eso. 5:1, 2) Con questo il faraone voleva evidentemente dire che non conosceva Geova come il vero Dio, avente alcuna autorità sul re d’Egitto e quello che lo riguardava o il potere di far rispettare la Sua volontà com’era stato annunciato da Mosè e Aaronne. Ma ora il faraone e tutto l’Egitto, insieme agli israeliti, avrebbero potuto conoscere il vero significato di quel nome, la persona che rappresentava. Come Geova spiegò a Mosè, questo sarebbe stato il risultato del fatto che Dio avrebbe adempiuto il suo proposito liberando gli israeliti e dando loro la Terra Promessa, e adempiendo così il patto stipulato coi loro antenati. In tal modo, Dio disse: “Per certo conoscerete che io sono Geova vostro Dio”. — Eso. 6:4-8.
Il primo essere umano di cui è specificato che usò il nome divino fu Eva. (Gen. 4:1) È ovvio che aveva appreso quel nome da Adamo, suo marito e capo, dal quale aveva anche appreso il comando di Dio relativo all’albero della conoscenza del bene e del male (benché anche in questo caso la Bibbia non dica direttamente che Adamo le trasmise tale informazione). — Gen. 2:16, 17; 3:2, 3; vedi ENOS.
LA PERSONA IDENTIFICATA DAL NOME
Geova è il Creatore di tutte le cose, la grande Causa Prima; quindi è senza principio, non essendo stato creato. (Riv. 4:11) La mente umana può accettare l’idea dell’infinito — come l’illimitata estensione dello spazio — ma non può realmente comprendere l’infinita esistenza di Geova. (Giob. 36:26) È impossibile attribuirgli un’età, perché non c’è un punto di partenza da cui calcolarla. Pur essendo senza età, è giustamente chiamato “Antico di Giorni” poiché la sua esistenza risale all’infinito nel passato. (Dan. 7:9, 13, NW) Né ha una fine futura (Riv. 10:6), essendo incorruttibile, immortale. Perciò è chiamato il “Re d’eternità” (I Tim. 1:17), per il quale mille anni sono come una veglia di poche ore durante la notte. — Sal. 90:2, 4; Ger. 10:10; Abac. 1:12; Riv. 15:3.
Pur essendo senza tempo, Geova è preminentemente un Dio storico, che si identifica con epoche, luoghi, persone e avvenimenti precisi. Nei suoi rapporti col genere umano ha sempre agito secondo un esatto calcolo del tempo. (Gen. 15:13, 16; 17:21; Eso. 12:6-12; Gal. 4:4) Poiché la sua esistenza eterna è innegabile ed è la realtà più fondamentale dell’universo, su di essa egli ha fatto molti giuramenti dicendo: “Come io vivo”. Tale garanzia dava l’assoluta certezza che le sue promesse e profezie si sarebbero adempiute. (Ger. 22:24; Sof. 2:9; Num. 14:21, 28; Isa. 49:18) Anche gli uomini hanno fatto giuramenti giurando sull’esistenza di Geova. (Giud. 8:19; Rut 3:13) Solo gli insensati dicono: “Non c’è Geova”. — Sal. 14:1; 10:4.
Descrizioni delle sue sembianze
Poiché è uno Spirito, gli esseri umani non lo possono vedere (Giov. 4:24); perciò qualsiasi descrizione del suo aspetto in termini umani può solo dare un’idea approssimativa della sua incomparabile gloria. (Isa. 40:25, 26) Anche se non videro realmente il Creatore (Giov. 1:18), alcuni suoi servitori ebbero visioni ispirate delle sue corti celesti. La descrizione che hanno fatto della sua presenza ne ritrae non solo la grande dignità e imponente maestà, ma anche la serenità, l’ordine, la bellezza e piacevolezza. — Eso. 24:9-11; Isa. 6:1; Ezec. 1:26-28; Dan. 7:9; Riv. 4:1-3; vedi anche Salmo 96:4-6.
Come si può notare, queste descrizioni ricorrono a metafore e similitudini, paragonando l’aspetto di Geova a cose conosciute dagli esseri umani, come pietre preziose, fuoco e arcobaleno. È descritto perfino con certe caratteristiche umane. Alcuni dotti hanno fatto una questione a proposito di quelle che chiamano espressioni “antropomorfiche” della Bibbia, come i riferimenti a “occhi”, “orecchi” e “faccia” di Dio (I Piet. 3:12), al suo “braccio” (Ezec. 20:33), alla sua “destra” (Eso. 15:6), ecc., ma è ovvio che tali espressioni sono necessarie per fare una descrizione umanamente comprensibile. Se Geova Dio ci facesse una sua descrizione in termini spirituali, sarebbe come proporre complesse equazioni algebriche a persone che abbiano solo la conoscenza più elementare della matematica, o cercare di spiegare i colori a uno nato cieco. — Giob. 37:23, 24.
I cosiddetti “antropomorfismi” non si devono dunque mai prendere alla lettera, non più di altri riferimenti metaforici a Dio come a un “sole”, uno “scudo” o una “Roccia”. (Sal. 84:11; Deut. 32:4, 31) La vista di Geova (Gen. 16:13), a differenza della vista umana, non dipende dai raggi luminosi, ed egli può vedere le opere compiute nelle tenebre più assolute. (Sal. 139:1, 7-12; Ebr. 4:13) La sua vista può abbracciare tutta la terra (Prov. 15:3) e non ha bisogno di raggi X per vedere l’embrione che si sviluppa nel grembo materno. (Sal. 139:15, 16) Né il suo udito dipende dalle onde sonore presenti nell’atmosfera, infatti può “udire” le espressioni del cuore umano non espresse a parole. (Sal. 19:14) L’uomo non è in grado neanche di misurare il vasto universo fisico, eppure i cieli fisici non abbracciano o includono il luogo di dimora di Dio, tanto meno può farlo qualche casa o tempio terreno. (I Re 8:27; Sal. 148:13) Per mezzo di Mosè, Geova Dio ammonì specificatamente la nazione d’Israele di non fare immagine di Lui in forma umana o di qualsiasi cosa creata. (Deut. 4:15-18) Perciò, mentre Luca riferisce che Gesù disse che espelleva demoni “per mezzo del dito di Dio”, Matteo spiega che Gesù intendeva con quell’espressione lo “spirito di Dio” o forza attiva. — Luca 11:20; Matt. 12:28; confronta Geremia 27:5 e Genesi 1:2.
Qualità personali rivelate nella creazione
Certi aspetti della personalità di Geova sono stati rivelati dalle sue opere creative ancor prima della creazione dell’uomo. (Rom. 1:20) L’atto stesso del creare rivela il suo amore, perché Geova è compiuto in se stesso, non gli manca nulla. Benché abbia creato centinaia di migliaia di figli spirituali, nessuno può aggiungere nulla alla sua conoscenza né conferire ai suoi sentimenti o alla sua personalità qualche buona qualità che egli non possieda già in sommo grado. — Dan. 7:9, 10; Ebr. 12:22; Isa. 40:13, 14; Rom. 11:33, 34.
Questo non significa però che Geova non provi piacere nelle sue creature. Poiché l’uomo è stato fatto “a immagine di Dio” (Gen. 1:27), ne consegue che la gioia che un padre umano prova a motivo del proprio figlio, specie del figlio che mostra amore filiale e agisce con saggezza, riflette la gioia che prova Geova a motivo delle sue creature intelligenti che lo amano e saggiamente lo servono. (Prov. 27:11; Matt. 3:17; 12:18) Questo piacere non deriva da qualche vantaggio materiale o fisico, ma dal vedere le sue creature attenersi volontariamente alle sue giuste norme e mostrare altruismo e generosità. (I Cron. 29:14-17; Sal. 50:7-15; 147:10, 11; Ebr. 13:16) Viceversa coloro che seguono una condotta sbagliata e disprezzano l’amore di Geova, che disonorano il suo nome e fanno soffrire crudelmente altri, ‘addolorano il suo cuore’. — Gen. 6:5-8; Sal. 78:36-41; Ebr. 10:38.
Geova prova piacere anche nell’esercizio della sua potenza, sia nel creare che altrimenti, e le sue opere hanno sempre uno scopo reale e un movente buono. (Sal. 135:3-6; Isa. 46:10, 11; 55:10, 11) Essendo il generoso Datore di “ogni dono buono e ogni regalo perfetto”, si rallegra nel riversare benedizioni sui suoi figli e figlie fedeli. (Giac. 1:5, 17; Sal. 35:27; 84:11, 12; 149:4) Pur essendo pieno di calore e sensibilità, la sua felicità non dipende dalle sue creature, né Dio sacrifica i suoi giusti principi per sentimentalismo.
Geova ha manifestato amore anche nel concedere al primo Figlio spirituale creato il privilegio di cooperare con lui in tutte le successive opere creative, sia spirituali che materiali, e generosamente rese noto questo fatto a onore di suo Figlio. (Gen. 1:26; Col. 1:15-17) Così facendo non temeva una possibile competizione, ma anzi manifestava completa fiducia nella propria legittima Sovranità (Eso. 15:11) e anche nella lealtà e devozione di suo Figlio. Egli concede ai figli spirituali una libertà relativa nell’assolvere i loro doveri, a volte persino permettendo loro di esprimere la propria opinione su come svolgere particolari incarichi. — I Re 22:19-22.
Come fece notare l’apostolo Paolo, le invisibili qualità di Geova sono rivelate anche nella sua creazione materiale. (Rom. 1:19, 20) La sua enorme potenza supera l’immaginazione, infatti le immense galassie formate da miliardi di stelle sono ‘opera delle sue dita’ (Sal. 8:1, 3, 4; 19:1), e la ricchezza della sua sapienza è tale che, anche dopo migliaia di anni di ricerche e studio, l’intendimento che gli uomini hanno della creazione fisica non è che un “sussurro” in paragone con un possente tuono. (Giob. 26:14; Sal. 92:5; Eccl. 3:11) L’attività creativa di Geova riguardo al pianeta Terra fu contrassegnata da ordine logico, seguì un preciso programma (Gen. 1:2-31), facendo della terra — come l’hanno definita astronauti del XX secolo — un “gioiello nello spazio”.
Adamo vide molta stabilità nelle opere creative di Geova: il ciclo regolare del giorno e della notte, il costante flusso dell’acqua che scendeva lungo il fiume dell’Eden secondo la legge di gravità, e innumerevoli altre cose che davano prova che il Creatore della Terra non è un Dio di confusione ma di ordine. (Gen. 1:16-18; 2:10; Eccl. 1:5-7; Ger. 31:35, 36; I Cor. 14:33) L’uomo riscontra certamente che questo gli è di aiuto nello svolgere il lavoro e le attività affidatigli (Gen. 1:28; 2:15), potendo fare piani e lavorare con fiducia, senza ansietà o incertezza.
Le norme morali di Dio
Tutto considerato, non doveva sembrare strano all’uomo intelligente che Geova stabilisse norme per dirigere la condotta dell’uomo e i suoi rapporti col Creatore. La splendida attività di Geova fu un esempio per Adamo nel coltivare e curare l’Eden. (Gen. 2:15; 1:31) Adamo apprese anche la norma di Dio per il matrimonio, la monogamia, e per i rapporti familiari. (Gen. 2:24) Speciale risalto venne dato alla norma dell’ubbidienza agli ordini di Dio, essenziale alla vita stessa. Dal momento che Adamo era umanamente perfetto, Geova richiedeva da lui ubbidienza perfetta Geova diede al suo figlio terreno l’opportunità di manifestare amore e devozione ubbidendo al Suo comando di non mangiare di uno dei molti alberi da frutto dell’Eden. (Gen. 2:16, 17) Era una cosa semplice. Ma anche la condizione in cui si trovava Adamo era semplice, priva della complessità e confusione sviluppatesi in seguito. La sapienza di quella semplice prova venne messa in risalto dalle parole pronunciate da Gesù Cristo circa quattromila anni dopo: “Chi è fedele in ciò che è minimo è anche fedele nel molto, e chi è ingiusto in ciò che è minimo è anche ingiusto nel molto”. — Luca 16:10.
L’ordine e le norme stabilite non avrebbero privato l’uomo del piacere di vivere, anzi l’avrebbero accresciuto. A proposito delle norme evidenti nella creazione materiale un’enciclopedia osserva: “Nonostante le schiaccianti prove dell’esistenza di norme nessuno accusa la natura di essere monotona. Pur avendo alla base una stretta gamma di lunghezze d’onda dello spettro luminoso, le possibili variazioni e combinazioni del colore che deliziano l’occhio dell’osservatore sono praticamente illimitate. Similmente, qualsiasi composizione musicale giunge all’orecchio attraverso un altro limitato gruppo di frequenze”. (The Encyclopædia Britannica, ed. 1959, Vol. 21, p. 307) Allo stesso modo le norme stabilite da Dio per la coppia umana consentivano tutta la libertà che un cuore giusto potrebbe desiderare. Non c’era nessun bisogno di assoggettarli a una moltitudine di leggi e regolamenti. L’amorevole esempio dato loro dal Creatore e il loro rispetto e amore per lui avrebbero impedito loro di superare i giusti limiti della loro libertà. — Confronta I Timoteo 1:9, 10; Romani 6:15-18; 13:8-10; II Corinti 3:17.
Geova Dio, per il suo stesso Essere, le sue attività e le sue parole, è dunque stato ed è la Suprema Norma di tutto l’universo, la definizione e la somma di tutta la bontà. Per questa ragione quando era sulla terra suo Figlio poté dire a un uomo: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, eccetto uno solo, Dio”. — Mar. 10:17, 18; vedi anche Matteo 19:17; 5:48.
IL NOME DEVE ESSERE SANTIFICATO E RIVENDICATO
Poiché tutto ciò che si riferisce alla persona di Dio è santo, il suo nome proprio, Geova, è santo, e deve perciò essere santificato. (Lev. 22:32) Santificare significa rendere santo, separare o ritenere sacro, e perciò non da usare come qualche cosa di ordinario o comune. (Isa. 6:1-3; Luca 1:49; Riv. 4:8; vedi SANTIFICAZIONE). A motivo della Persona che rappresenta, il nome di Geova è “grande e tremendo” (Sal. 99:3, 5), “maestoso” e “irraggiungibilmente alto” (Sal. 8:1; 148:13) e degno di timore. — Isa. 29:23; vedi SOVRANITÀ.
Dalla santificazione del nome di Geova dipendono l’ordine, la pace e il benessere di tutto l’universo e dei suoi abitanti. Il Figlio di Dio lo spiegò, indicando allo stesso tempo il mezzo con cui Geova realizza il suo proposito, nell’insegnare ai suoi discepoli a pregare Dio: “Sia santificato il tuo nome. Venga il tuo regno. Si compia la tua volontà, come in cielo, anche sulla terra”. (Matt. 6:9, 10) Questo fondamentale proposito di Geova costituisce la chiave per comprendere la ragione delle azioni di Dio e dei suoi rapporti con le sue creature descritti nell’intera Bibbia.
Infatti riscontriamo che la nazione d’Israele, la cui storia costituisce una parte notevole della narrazione biblica, era stata scelta per essere ‘un popolo per il nome’ di Geova. (Deut. 28:9, 10; II Cron. 7:14; Isa. 43:1, 3, 6, 7) Il patto della legge di Geova dava primaria importanza al renderGli esclusiva devozione quale Dio e a non servirsi del suo Nome in modo indegno, “poiché Geova non lascerà impunito chi si sarà servito del suo nome in modo indegno”. (Eso. 20:1-7; confronta Levitico 19:12; 24:10-23). Il suo potere di salvare e di distruggere fu manifestato nel liberare Israele dall’Egitto; così il nome di Geova fu “dichiarato in tutta la terra” e la sua fama precedette Israele nella sua marcia verso la Terra Promessa. (Eso. 9:15, 16; 15:1-3, 11-17; II Sam. 7:23; Ger. 32:20, 21) Il profeta Isaia espresse lo stesso pensiero dicendo: “Così tu conducesti il tuo popolo per farti un bel nome”. (Isa. 63:11-14) Quando gli israeliti nel deserto manifestarono un atteggiamento ribelle, Geova ebbe misericordia di loro e non li abbandonò. Tuttavia rivelò la principale ragione per cui l’aveva fatto: “Agii per amore del mio proprio nome affinché esso non fosse profanato dinanzi agli occhi delle nazioni”. — Ezec. 20:8-10.
Nel corso di tutta la storia di quella nazione Geova diede grande risalto all’importanza del suo sacro Nome. La capitale, Gerusalemme, col monte Sion fu il luogo scelto da Geova “per porvi il suo nome, per farlo risiedere”. (Deut. 12:5, 11; 14:24, 25; Isa. 18:7; Ger. 3:17) Il tempio costruito in quella città era la ‘casa per il nome di Geova’. (I Cron. 29:13-16; I Re 8:15-21, 41-43) Quello che si faceva in quel tempio o in quella città, in bene o in male, influiva inevitabilmente sul Nome di Geova e avrebbe richiamato la sua attenzione. (I Re 8:29; 9:3; II Re 21:4-7) La profanazione del Nome di Geova avrebbe sicuramente portato alla distruzione della città e provocato il rigetto del tempio stesso. (I Re 9:6-8; Ger. 25:29; 7:8-15; vedi anche le azioni e le parole di Gesù in Matteo 21:12, 13; 23:38). Per tali ragioni nelle loro meste suppliche a favore del popolo e della città Geremia e Daniele implorarono Geova di concedere misericordia e aiuto ‘per amore del suo stesso nome’. — Ger. 14:9; Dan. 9:15-19.
Nel predire il ritorno in Giuda e la purificazione del popolo per il suo nome, Geova ancora una volta spiegò chiaramente la sua principale preoccupazione: “E io avrò compassione del mio santo nome . . . ‘Non lo faccio per amore vostro, o casa d’Israele, ma per il mio santo nome, che voi avete profanato fra le nazioni dove siete andati’. ‘E per certo santificherò il mio gran nome, che era profanato . . . ; e le nazioni dovranno conoscere che io sono Geova’, è l’espressione del Signore Geova, ‘quando mi sarò santificato fra voi dinanzi ai loro occhi’”. — Ezec. 36:20-27, 32.
Questi e altri brani scritturali dimostrano che Geova non attribuisce eccessiva importanza al genere umano. Essendo peccatori tutti gli uomini sono giustamente meritevoli di morte e solo per immeritata benignità e misericordia di Dio avranno la vita. (Rom. 5:12, 21; I Giov. 4:9, 10) Geova non deve nulla all’umanità, e la vita eterna sarà, per coloro che la riceveranno, un dono, non un salario guadagnato. (Rom. 5:15; 6:23; Tito 3:4, 5) È vero che Dio ha dimostrato amore senza pari al genere umano (Giov. 3:16; Rom. 5:7, 8), ma sarebbe contrario alla realtà scritturale e significherebbe vedere le cose sotto una prospettiva sbagliata considerare la salvezza umana la questione più importante o il criterio per misurare la giustizia, rettitudine e santità di Dio. Il salmista espresse la vera prospettiva delle cose esclamando con umiltà e meraviglia: “O Geova nostro Signore, come è maestoso il tuo nome in tutta la terra. Tu la cui dignità è narrata al di sopra dei cieli! Quando vedo i tuoi cieli, opere delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai preparate, che cos’è l’uomo mortale che tu ti ricordi di lui, e il figlio dell’uomo terreno che tu ne abbia cura?” (Sal. 8:1, 3, 4; 144:3; confronta Isaia 45:9; 64:8). La santificazione del nome di Geova Dio giustamente è più importante della vita di tutto il genere umano. Infatti, come ha spiegato il Figlio di Dio, l’uomo deve amare il suo prossimo come se stesso, ma deve amare Dio con tutto il cuore, la mente, l’anima e la forza. (Mar. 12:29-31) Questo significa amare Geova Dio più di parenti e amici o della vita stessa. — Deut. 13:6-10; Riv. 12:11; confronta l’esempio dei tre ebrei in Daniele 3:16-18; vedi GELOSIA, GELOSO.
Tale veduta scritturale non dovrebbe riuscire ostica, ma anzi dovrebbe ancor di più far apprezzare il vero Dio. Poiché in tutta giustizia Geova avrebbe potuto porre fine all’intero genere umano peccatore, risalta ancora di più la grandezza della sua misericordia e immeritata benignità mostrate nel salvare alcuni del genere umano perché possano avere la vita. (Giov. 3:36) Egli non prova piacere nella morte del malvagio (Ezec. 18:23, 32; 33:11); ma non permetterà che il malvagio sfugga all’esecuzione del suo giudizio. (Amos 9:2-4; Rom. 2:2-9) È paziente e longanime, offrendo la salvezza agli ubbidienti (II Piet. 3:8-10); eppure non tollererà per sempre una situazione che disonora il suo eccelso Nome. (Sal. 74:10, 22, 23; Isa. 65:6, 7; II Piet. 2:3) Ha compassione ed è comprensivo verso le debolezze umane, perdonando “in larga misura” coloro che si pentono (Sal. 103:10-14; 130:3, 4; Isa. 55:6, 7); eppure non lascerà che alcuno si sottragga alla responsabilità che giustamente ha delle proprie azioni e degli effetti che queste hanno su di lui e sulla sua famiglia. Ognuno raccoglie ciò che ha seminato. (Deut. 30:19, 20; Gal. 6:5, 7, 8) Perciò Geova mostra un mirabile e perfetto equilibrio di giustizia e misericordia. Chi ha la giusta veduta delle cose com’è rivelata nella sua Parola (Isa. 55:8, 9; Ezec. 18:25, 29-31) non commetterà il grave errore di prendere alla leggera la sua immeritata benignità o ‘venir meno al suo scopo’. — II Cor. 6:1; Ebr. 10:26-31; 12:29.
IMMUTABILI QUALITÀ E NORME
Geova stesso disse al popolo d’Israele: “Io sono Geova; non sono cambiato”. (Mal. 3:6) Questo avvenne circa 3.500 anni dopo la creazione dell’uomo e 1.500 anni dopo aver stipulato il patto abraamico. Anche se alcuni affermano che il Dio rivelato nelle Scritture Ebraiche non sia lo stesso Dio rivelato da Gesù Cristo e dagli scrittori delle Scritture Greche Cristiane, un attento esame rivela che questa affermazione è priva di qualsiasi fondamento. Il discepolo Giacomo giustamente ha detto di Dio: “Presso di lui non vi è variazione di volgimento d’ombra”. (Giac. 1:17) La personalità di Geova Dio non si è ‘addolcita’ nel corso dei secoli, perché ciò non era necessario. La severità che rivela nelle Scritture Greche Cristiane non è minore né il suo amore maggiore di quanto non fosse all’inizio dei suoi rapporti col genere umano in Eden.
Le apparenti differenze sono in realtà solo aspetti diversi della stessa immutabile personalità. Questi sono determinati dalle diverse circostanze e persone con cui ha a che fare, che richiedono una relazione o un atteggiamento diverso. (Confronta Isaia 59:1-4). Non fu Geova, ma furono Adamo ed Eva a cambiare, mettendosi in una situazione tale che le immutabili giuste norme di Geova non permisero più che fossero trattati come componenti della sua diletta famiglia universale. Essendo perfetti, furono pienamente responsabili della propria trasgressione volontaria (Rom. 5:14) e quindi andarono oltre i limiti della misericordia divina, anche se Geova mostrò immeritata benignità provvedendo loro degli indumenti e permettendo loro di vivere per secoli fuori del santuario dell’Eden e di generare una progenie prima di morire per gli effetti della loro condotta peccaminosa. (Gen. 3:8-24) Dopo l’espulsione dall’Eden evidentemente cessò ogni comunicazione di Dio con Adamo e sua moglie.
Coerente nei rapporti con esseri umani imperfetti
Le sue giuste norme permisero a Geova di trattare la progenie di Adamo ed Eva in modo diverso dai genitori. Perché? Per la ragione che la progenie di Adamo aveva ereditato il peccato, avendo quindi iniziato involontariamente la vita come creature imperfette con la tendenza innata a sbagliare. (Sal. 51:5; Rom. 5:12) La misericordia verso di loro era dunque giustificata. La prima profezia di Geova (Gen. 3:15), pronunciata contemporaneamente alla condanna in Eden, indicava che la ribellione dei suoi primi figli umani (e anche di uno dei suoi figli spirituali) non aveva amareggiato Geova né inaridito il suo amore. Quella profezia additava in termini simbolici un rimedio per la situazione prodotta dalla ribellione e un ritorno delle condizioni alla perfezione originale, ma il pieno significato ne fu rivelato millenni dopo. — Vedi i relativi simbolismi, “serpente”, “donna” e “seme”, in Rivelazione 12:9, 17 e Galati 3:16, 29; 4:26, 27.
Da migliaia d’anni i discendenti di Adamo continuano a esistere sulla terra, anche se in una condizione imperfetta e moritura, senza essere in grado di sottrarsi alla stretta mortale del peccato. L’apostolo cristiano Paolo ha spiegato la ragione per cui Geova l’ha permesso: “La creazione fu sottoposta alla futilità, non di propria volontà ma per mezzo di colui che la sottopose [cioè Geova Dio], in base alla speranza che la creazione stessa sarà pure resa libera dalla schiavitù alla corruzione e avrà la gloriosa libertà dei figli di Dio. Poiché sappiamo che tutta la creazione continua a gemere insieme ed è in pena insieme fino ad ora”. (Rom. 8:20-22) Come viene spiegato alla voce PRECONOSCERE, PREORDINARE, nulla indica che Geova abbia deciso di usare le sue facoltà di discernimento per prevedere il traviamento della coppia originale. Ma una volta avvenuto, Geova preordinò il modo per correggere la situazione sbagliata. (Efes. 1:9-11) Questo sacro segreto, racchiuso in origine nei simboli della profezia edenica, fu alla fine pienamente rivelato nel primogenito Figlio di Geova, inviato sulla terra affinché potesse “rendere testimonianza alla verità” e affinché “per immeritata benignità di Dio egli gustasse la morte per ogni uomo”. — Giov. 18:37; Ebr. 2:9; vedi RISCATTO.
La benedizione di Dio e i suoi rapporti con certi discendenti del peccatore Adamo non costituirono dunque alcun mutamento delle norme di perfetta giustizia di Geova. Non approvava in tal modo la loro condizione peccaminosa. Ma dal momento che l’adempimento dei suoi propositi è assolutamente certo, Geova “chiama le cose che non sono come se fossero” (per esempio chiamando Abramo “Abraamo”, che significa “padre di una moltitudine”, quando non aveva ancora figli). (Rom. 4:17) Sapendo che a suo tempo (Gal. 4:4) avrebbe provveduto un riscatto, il mezzo legale per perdonare il peccato ed eliminare l’imperfezione (Isa. 53:11, 12; Matt. 20:28; I Piet. 2:24), Geova è stato coerente nel trattare e avere al suo servizio uomini imperfetti, che hanno ereditato il peccato. Questo perché aveva la giusta base per considerarli giusti a motivo della loro fede nelle sue promesse e poi nell’adempimento di tali promesse in Cristo Gesù, il perfetto sacrificio per i peccati. (Giac. 2:23; Rom. 4:20-25) Quindi il provvedimento del riscatto coi suoi benefici è una straordinaria testimonianza non solo dell’amore e della misericordia di Geova, ma anche della sua fedeltà alle eccelse norme di giustizia, poiché con la disposizione del riscatto manifesta “la propria giustizia nel tempo presente, affinché sia giusto anche quando dichiara giusto l’uomo [benché imperfetto] che ha fede in Gesù”. — Rom. 3:21-26; confronta Isaia 42:21; vedi DICHIARARE GIUSTO.
Perché il ‘Dio di pace’ combatte
Secondo la dichiarazione fatta in Eden, Geova avrebbe posto inimicizia fra il seme del suo avversario e il seme della “donna”, ma questo non cambia il fatto che è il ‘Dio di pace’. (Gen. 3:15; Rom. 16:20; I Cor. 14:33) In quel tempo la situazione era identica a quella esistente all’epoca della vita terrena di suo Figlio Gesù Cristo, il quale, dopo aver menzionato la sua unione col Padre celeste, disse: “Non pensate che io sia venuto a metter pace sulla terra; io non sono venuto a metter pace, ma spada”. (Matt. 10:32-40) Il ministero di Gesù provocò divisioni, anche in seno alle famiglie (Luca 12:51-53), ma questo per aver proclamato ed essersi attenuto alla verità e alle giuste norme di Dio. La divisione fu il risultato del fatto che molti indurirono il cuore respingendo tali verità, mentre altri le accettarono. (Giov. 8:40, 44-47; 15:22-25; 17:14) Questo era inevitabile se si dovevano sostenere i principi divini; ma la colpa era di coloro che rifiutavano ciò che era giusto.
Quindi anche l’inimicizia predetta era dovuta al fatto che le perfette norme di Geova non permettevano di condonare la ribelle condotta del “seme” di Satana. La disapprovazione di Dio per costoro e la sua benedizione per coloro che seguivano una condotta giusta avrebbero avuto un effetto divisivo (Giov. 15:18-21; Giac. 4:4), come avvenne nel caso di Caino e Abele. — Gen. 4:2-8; Ebr. 11:4; I Giov. 3:12; Giuda 10, 11; vedi CAINO.
La condotta ribelle intrapresa da uomini e da malvagi angeli costituiva una sfida alla legittima sovranità di Geova e al buon ordine di tutto l’universo. Per affrontare apertamente tale sfida Geova è dovuto diventare “una vigorosa persona di guerra” (Eso. 15:3-7), a difesa del suo buon Nome e delle sue giuste norme, combattendo a favore di quelli che lo amano e lo servono, e condannando quelli che meritano la distruzione. (I Sam. 17:45; II Cron. 14:11; Isa. 30:27-31; 42:13) Non esita a impiegare la sua forza onnipotente, a volte devastatrice, come fece nel Diluvio, nella distruzione di Sodoma e Gomorra e nella liberazione di Israele dall’Egitto. (Deut. 7:9, 10) E non ha paura di palesare alcun particolare della sua guerra giusta; non se ne scusa, non avendo nulla di cui vergognarsi. (Giob. 34:10-15; 36:22-24; 37:23, 24; 40:1-8; Rom. 3:4) Il rispetto per il suo Nome e la giustizia che rappresenta, e anche l’amore per coloro che lo amano, lo costringono ad agire. — Isa. 48:11; 57:21; 59:15-19; Riv. 16:5-7.
Le Scritture Greche Cristiane dipingono lo stesso quadro. L’apostolo Paolo incoraggiava i compagni di fede dicendo: “L’Iddio che dà pace stritolerà fra breve Satana sotto i vostri piedi”. (Rom. 16:20; confronta Genesi 3:15). Spiegò inoltre che era giusto che Dio rendesse tribolazione a coloro che fanno tribolare i suoi servitori, con la distruzione eterna di tali oppositori. (II Tess. 1:6-9) Questo era in armonia con gli insegnamenti del Figlio di Dio, che non lasciò adito a dubbio circa l’irriducibile determinazione del Padre suo di porre fine con la forza a ogni malvagità e a coloro che la praticano. (Matt. 13:30, 38-42; 21:42-44; 23:33; Luca 17:26-30; 19:27) Il libro di Rivelazione contiene la descrizione di azioni di guerra autorizzate da Dio. Ma nella sapienza di Geova tutto questo alla fine avrà il risultato di stabilire durevole pace universale, solidamente fondata su giustizia e rettitudine. — Isa. 9:6, 7; II Piet. 3:13.
Gesù Cristo evidentemente si riferiva al fatto che Geova ‘reca punizione sui discendenti dei peccatori’ quando disse agli ipocriti scribi e farisei: “[Voi] dite: ‘Se fossimo ai giorni dei nostri antenati, non saremmo partecipi con loro del sangue dei profeti’. Perciò date testimonianza contro voi stessi d’esser figli di quelli che assassinarono i profeti. E voi colmate quindi la misura dei vostri padri”. (Matt. 23:29-32) Nonostante le loro affermazioni, con la loro condotta dimostravano di approvare le azioni sbagliate dei loro antenati e rivelavano di essere loro stessi fra ‘quelli che odiano Geova’. (Eso. 20:5; Matt. 23:33-36; Giov. 15:23, 24) Perciò, a differenza degli ebrei che si pentirono e prestarono ascolto alle parole del Figlio di Dio, essi subirono l’effetto cumulativo del giudizio di Dio quando, anni dopo, Gerusalemme fu assediata e distrutta e gran parte della popolazione perì. Avrebbero potuto evitarlo, ma preferirono non valersi della misericordia di Dio. — Luca 21:20-24; confronta Daniele 9:10, 13-15.
La sua personalità si riflette nel Figlio
Sotto ogni aspetto Gesù Cristo era una fedele immagine della mirabile personalità del Padre suo, Geova Dio, nel cui nome venne. (Giov. 1:18; Matt. 21:9; Giov. 12:12, 13; confronta Salmo 118:26). Una volta disse: “Il Figlio non può fare una sola cosa di propria iniziativa, ma solo ciò che vede fare dal Padre. Poiché qualunque cosa Egli faccia, questa fa pure il Figlio in modo simile”. (Giov. 5:19) Ne consegue dunque che la benignità e la compassione, la mitezza e il calore, e anche il grande amore per la giustizia e l’odio per la malvagità che Gesù manifestò (Ebr. 1:8, 9), sono tutte qualità che il Figlio aveva osservate nel Padre suo, Geova Dio. — Confronta Matteo 9:35, 36 con Salmo 23:1-6 e Isaia 40:10, 11; Matteo 11:27-30 con Isaia 40:28-31 e 57:15, 16; Luca 15:11-24 con Salmo 103:8-14; Luca 19:41-44 con Ezechiele 18:31, 32 e 33:11.
Leggendo le Scritture ispirate e riuscendo veramente a ‘conoscere’ con intendimento il pieno significato del nome di Geova (Sal. 9:9, 10; 91:14; Ger. 16:21), chi ama la giustizia ha ogni ragione di amare e benedire quel nome (Sal. 72:18-20; 119:132; Ebr. 6:10), di lodarlo ed esaltarlo (Sal. 7:17; Isa. 25:1; Ebr. 13:15), di temerlo e santificarlo (Nee. 1:11; Mal. 2:4-6; 3:16-18; Matt. 6:9), di confidare in esso (Sal. 33:21; Prov. 18:10), dicendo insieme al salmista: “Canterò a Geova per tutta la mia vita; certo innalzerò melodie al mio Dio finché sarò. Siano piacevoli le mie meditazioni intorno a lui. Io, da parte mia, mi rallegrerò in Geova. I peccatori periranno dalla terra; e in quanto ai malvagi, non saranno più. Benedici Geova, o anima mia. Lodate Iah!” — Sal. 104:33-35.
[Figure a pagina 508]
Il nome divino ricorre nella 2ª e 5ª riga di questa Lettera di Lachis del VII secolo a.E.V.
Parte di un manoscritto ebraico del IX–XI secolo E.V. Nella 3ª riga il Tetragramma è preceduto da “’Adhonày” (Signore) e perciò è contrassegnato dai segni vocalici di “’Elohìm” (Dio). Nella 2ª riga è contrassegnato dalle vocali di “Adhonày”
[Figure a pagina 509]
Frammenti di una copia della “Settanta” greca (Papiro Fouad 266) del II o I secolo a.E.V. Le più antiche copie della “LXX” contenevano dunque il nome divino. Nelle righe indicate dalle frecce compare regolarmente il Tetragramma in caratteri ebraici.
[Figura a pagina 510]
La forma latina “Jehova” compare per la prima volta nel 1270 E.V. nel “Pugio Fidei”. In questa copia ricorre nella quartultima riga
[Figura a pagina 511]
Manoscritto della fine del V secolo o dell’inizio del VI secolo E.V. della traduzione greca di Aquila. Nella 1ª, 7ª e 10ª riga compare il Tetragramma in caratteri ebraici
[Figura a pagina 513]
“The Emphatic Diaglott” (pubblicata in un volume nel 1864) pare sia stata la prima traduzione inglese a usare il nome divino nelle Scritture Greche Cristiane. Il nome “Jehovah” vi ricorre diciotto volte da Matteo ad Atti; qui lo si vede in Matteo 22:37, 44