Peccato
Termine che traduce l’ebraico hhattà’th e il greco hamartìa. In entrambe le lingue le forme verbali (ebr. hhatà’; gr. hamartàno) significano “mancare”, nel senso di mancare o non raggiungere un obiettivo, un bersaglio o un punto esatto, sbagliare strada. In Giudici 20:16 hhatà’ è usato (con una negazione) per descrivere i frombolieri beniaminiti che non mancavano un bersaglio sottile come un cappello. Scrittori greci usavano spesso hamartàno parlando di un lanciere che mancava il bersaglio.
Entrambi i vocaboli avevano il significato di mancare o di non riuscire a raggiungere non solo oggetti o obiettivi materiali (Giob. 5:24), ma anche mete o obiettivi morali o intellettuali. Proverbi 8:35, 36 dice che chi trova la sapienza di Dio trova la vita, ma chi ‘perde [ebr. hhatà’] la sapienza fa violenza alla propria anima’, provocandone la morte. Nelle Scritture sia il termine ebraico che quello greco si riferiscono principalmente al peccare o mancare il bersaglio da parte di creature intelligenti di Dio nei confronti del Creatore.
“Peccato” (hhattà’th; hamartìa) dal punto di vista scritturale è fondamentalmente qualsiasi cosa non in armonia e quindi contraria alla personalità, alle norme, alle vie e alla volontà di Dio; qualsiasi cosa offuschi la propria relazione con Dio. Può trattarsi di parole (Giob. 2:10; Sal. 39:1), azioni (fare qualcosa di scorretto [Lev. 20:20; II Cor. 12:21] o non fare ciò che si dovrebbe [Num. 9:13; Giac. 4:17]), o di un atteggiamento della mente o del cuore. (Prov. 21:4; confronta anche Romani 3:9-18; II Pietro 2:12-15). Il peccato dunque guasta ciò che l’uomo riflette della somiglianza e gloria di Dio: rende l’uomo non più santo, cioè impuro, macchiato in senso morale e spirituale. (Confronta Isaia 6:5-7; Salmo 51:1, 2; Ezechiele 37:23; vedi SANTITÀ). La mancanza di fede in Dio è un peccato grave che rivela infatti diffidenza o mancanza di fiducia nella sua capacità di adempiere. (Ebr. 3:12, 13, 18, 19) Un esame dell’uso di questi termini nelle lingue originali e gli esempi relativi lo illustrano.
INTRODUZIONE DEL PECCATO
Il peccato fu introdotto sul piano spirituale prima della sua introduzione sulla terra. Per epoche immemorabili nell’universo era regnata una completa armonia con Dio. La spaccatura fu provocata da una creatura spirituale chiamata semplicemente Oppositore, Avversario (ebr. Satàn; gr. Satanàs; Giob. 1:6; Rom. 16:20), il principale falso Accusatore o Calunniatore (gr. Diàbolos) di Dio. (Ebr. 2:14; Riv. 12:9) Perciò l’apostolo Giovanni dice: “Chi pratica il peccato ha origine dal Diavolo, perché il Diavolo ha peccato dal principio”. — I Giov. 3:8.
Per “principio” Giovanni chiaramente intende l’inizio della carriera di opposizione di Satana (come “principio” è usato in I Giovanni 2:7; 3:11 a proposito dell’inizio del servizio cristiano dei discepoli). Le parole di Giovanni indicano che, una volta introdotto il peccato, Satana continuò il suo corso peccaminoso. Perciò chiunque “fa del peccato la sua attività o pratica” (The Expositor’s Greek Testament, Vol. V, p. 185) rivela di essere ‘figlio’ dell’Avversario, progenie spirituale che riflette le qualità del proprio “padre”. — Giov. 8:44; I Giov. 3:10-12.
Poiché il peccato nasce da un desiderio errato coltivato fino al punto di renderlo fertile (Giac. 1:14, 15), la creatura spirituale che si trasformò in oppositore aveva già cominciato a deviare dalla giustizia, provava già malcontento nei confronti di Dio, prima dell’effettiva manifestazione del peccato.
Ribellione in Eden
La volontà di Dio espressa ad Adamo e a sua moglie era prima di tutto positiva, stabiliva che cosa dovevano fare. (Gen. 1:26-29; 2:15) Ad Adamo fu dato un solo comando negativo, che proibiva di mangiare (o toccare) l’albero della conoscenza del bene e del male. (Gen. 2:16, 17; 3:2, 3) La prova dell’ubbidienza e devozione alla quale Dio sottopose l’uomo si distingue per il rispetto della dignità umana. Dio non attribuiva ad Adamo nulla di male; non lo mise alla prova vietandogli, per esempio, di commettere bestialità, assassinio o qualche azione similmente vile e ignobile, rivelando in tal modo di pensare che Adamo potesse avere dentro di sé inclinazioni spregevoli. Mangiare era una cosa normale, corretta, e ad Adamo era stato detto di “mangiare a sazietà” di ciò che Dio gli aveva provveduto. (Gen. 2:16) Ma ora Dio metteva alla prova Adamo vietandogli di mangiare del frutto di quest’unico albero; in tal modo Dio fece sì che il mangiarne simboleggiasse da parte di chi ne avrebbe mangiato una conoscenza che gli avrebbe permesso di decidere da sé ciò che era “bene” o “male” per l’uomo. Così Dio non gli impose delle privazioni né attribuì ad Adamo qualcosa al di sotto della sua dignità di figlio umano di Dio.
Il primo essere umano a peccare fu la donna. L’avversario di Dio, che comunicò con lei per mezzo di un serpente, non la tentò con un aperto invito a commettere immoralità di natura sensuale. Anzi lo presentò come un appello al desiderio di una presunta libertà ed elevazione intellettuale. Dopo averle fatto ripetere la legge di Dio, di cui Eva era stata evidentemente informata dal marito, il tentatore attaccò la veracità e bontà di Dio. Asserì che il risultato di mangiare il frutto di quell’albero non sarebbe stato la morte ma il progresso e la divina qualità di decidere da sé se una cosa era buona o cattiva. Questa asserzione rivela che il cuore del tentatore si era ormai interamente alienato dal Creatore, infatti le sue parole costituiscono un’aperta contraddizione oltre che una velata calunnia. Dicendo “poiché Dio...” non accusò Dio di ignorare l’errore ma di deliberato travisamento dei fatti. La gravità del peccato, l’ignobile natura di tanta ostilità, è evidente dai mezzi a cui ricorse questo figlio spirituale per raggiungere i suoi fini, diventando un bugiardo ingannatore e un assassino trascinato dall’ambizione, dato che ovviamente conosceva le fatali conseguenze di ciò che suggeriva alla sua ascoltatrice umana. — Giov. 8:44.
Come rivela la Bibbia, nella donna cominciò a farsi strada un desiderio sbagliato. Invece di reagire con profondo disgusto e giusta indignazione sentendo mettere in dubbio la giustizia della legge di Dio, essa cominciò a considerare l’albero come qualche cosa di desiderabile. Concupì ciò che giustamente apparteneva a Geova Dio, suo Sovrano: la capacità e prerogativa di determinare ciò che è bene o male per le sue creature. Essa cominciava dunque a conformarsi alle vie, alle norme e alla volontà dell’oppositore, in contrasto col Creatore, e anche col marito, suo capo costituito da Dio. (I Cor. 11:3) Fidandosi delle parole del tentatore, si lasciò sedurre, mangiò il frutto e così palesò il peccato che era nato nel suo cuore e nella sua mente. — Gen. 3:6; II Cor. 11:3; confronta Giacomo 1:14, 15; Matteo 5:27, 28.
In seguito, quando la moglie glielo offerse, Adamo mangiò il frutto. L’apostolo spiega che il peccato dell’uomo fu diverso da quello della moglie in quanto Adamo non fu ingannato dalla propaganda del tentatore, quindi non credette all’asserzione che si potesse mangiare impunemente dell’albero. (I Tim. 2:14) Adamo dovette mangiarne a motivo del desiderio che provava per la moglie, e ‘ascoltò la voce di lei’ anziché quella del suo Dio. (Gen. 3:6, 17) Così si sottomise alla volontà della moglie e, per mezzo di lei, a quella dell’avversario di Dio. Perciò ‘peccò’, non si comportò secondo l’immagine e somiglianza di Dio, non rifletté la gloria di Dio, anzi insultò il suo Padre celeste.
EFFETTI DEL PECCATO
Il peccato mise l’uomo in disaccordo col Creatore, nuocendo così non solo alla sua relazione con Dio ma anche col resto della creazione di Dio, oltre che all’uomo stesso, alla sua mente, al suo cuore e al suo corpo. Questo ebbe pessime conseguenze per la razza umana.
Il comportamento della coppia umana rivelò immediatamente questo disaccordo. Il fatto che coprirono parti del corpo creato da Dio e poi cercarono di nascondersi da Lui erano chiari segni del traviamento della loro mente e del loro cuore. (Gen. 3:7, 8) Il peccato fece provare loro sentimenti di colpa, ansietà, insicurezza, vergogna. Questo illustra l’argomento trattato dall’apostolo in Romani 2:15, che la legge di Dio era stata ‘scritta nel cuore dell’uomo’; quindi una violazione di quella legge produceva nell’uomo uno sconvolgimento interiore, poiché la sua coscienza lo accusava. In effetti l’uomo possedeva un innato rivelatore di menzogne che non gli permetteva di nascondere al Creatore il suo stato peccaminoso, e Dio, in risposta al tentativo dell’uomo di giustificare il proprio mutato atteggiamento verso il suo Padre celeste, chiese immediatamente: “Hai mangiato dell’albero di cui t’avevo comandato di non mangiare?” — Gen. 3:9-11.
Per essere coerente con se stesso, e anche per il bene del resto della sua famiglia universale, Geova Dio non poteva tollerare tale condotta peccaminosa, né da parte delle creature umane né da parte del figlio spirituale diventato ribelle. Fedele alla propria santità, emise giustamente la condanna a morte per tutti loro. La coppia umana fu quindi espulsa dal giardino di Dio in Eden, impedendo così l’accesso all’altro albero, chiamato da Dio “albero della vita”. — Gen. 3:14-24.
Conseguenze per tutta l’umanità
Romani 5:12 dichiara che “per mezzo di un solo uomo il peccato entrò nel mondo e la morte per mezzo del peccato, e così la morte si estese a tutti gli uomini perché tutti avevano peccato”. (Confronta I Giovanni 1:8-10). E l’apostolo prosegue dicendo che la morte aveva regnato “da Adamo fino a Mosè, anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. (Rom. 5:14) Il peccato di Adamo è giustamente definito una “trasgressione” essendo una violazione di una legge dichiarata, di un espresso comando datogli da Dio. Inoltre Adamo peccò di sua spontanea volontà essendo un essere umano perfetto, senza difetti, condizione in cui la sua progenie non si è mai trovata. Questi fattori sembrano dunque in contrasto con l’idea che ‘quando Adamo peccò, tutti i suoi discendenti non ancora nati peccarono con lui’. Per essere ritenuti responsabili e partecipi del personale peccato di Adamo tutti i suoi discendenti avrebbero dovuto in qualche modo esprimere la propria volontà di averlo come capofamiglia. Ma nessuno di loro in realtà ha voluto nascere da lui, e la loro nascita nella discendenza adamica è il risultato della volontà carnale dei loro genitori. (Giov. 1:13) È dunque evidente che il peccato fu trasmesso da Adamo alle successive generazioni a motivo della ben nota legge dell’ereditarietà. — Sal. 51:5.
Anche Paolo perviene alla stessa conclusione dicendo che, “come per mezzo della disubbidienza d’un solo uomo [Adamo] molti furono costituiti peccatori, similmente anche per mezzo dell’ubbidienza di una sola persona [Cristo Gesù] molti saranno costituiti giusti”. (Rom. 5:19) Tutti coloro che sarebbero stati “costituiti giusti” grazie all’ubbidienza di Cristo non furono immediatamente costituiti tali nel momento in cui egli presentò il sacrificio di riscatto, ma ricevettero i benefici di quel sacrificio man mano che esercitavano fede in quel provvedimento ed erano riconciliati con Dio. (Giov. 3:36; Atti 3:19) Anche le successive generazioni dei discendenti di Adamo vennero a trovarsi sotto il peccato essendo concepite da genitori nati peccatori della discendenza di Adamo.
Potere e salario del peccato
“Il salario che il peccato paga è la morte” (Rom. 6:23) ed essendo nati nella discendenza di Adamo tutti gli uomini si trovano sotto la “legge del peccato e della morte”. (Rom. 8:2; I Cor. 15:21, 22) Il peccato e la morte ‘hanno regnato’ sul genere umano, rendendolo schiavo, schiavitù a cui fu assoggettato da Adamo. (Rom. 5:17, 21; 6:6, 17; 7:14; Giov. 8:34) Queste parole indicano che il peccato è considerato non solo come l’effettiva commissione (o omissione) di certe azioni, ma anche come legge, principio o forza che opera negli uomini, cioè l’innata tendenza alla trasgressione che hanno ereditato da Adamo. Questa eredità ha prodotto ‘debolezza della carne’, imperfezione. (Rom. 6:19) La “legge” del peccato è sempre all’opera nelle loro membra carnali, in effetti cerca di dominare il loro comportamento, di assoggettarle al suo fine, che non è mai il giusto obiettivo di essere in armonia con Dio. — Rom. 7:15, 17, 18, 20-23; Efes. 2:1-3.
Malattia, sofferenza e vecchiaia
Dato che negli esseri umani la morte in genere è accompagnata da infermità o vecchiaia, ne consegue che queste sono conseguenza del peccato. Sotto il patto della legge mosaica concluso con Israele, le leggi che regolavano i sacrifici per il peccato includevano l’espiazione per coloro che erano stati affetti da lebbra. (Lev. 14:2, 19) Chi toccava un cadavere o entrava nella tenda in cui era morto qualcuno, diventava impuro e doveva sottoporsi a una cerimonia di purificazione. (Num. 19:11-19; confronta Numeri 31:19, 20). Anche Gesù collegò la malattia col peccato (Matt. 9:2-7; Giov. 5:5-15), pur convenendo che determinati disturbi non sono necessariamente il risultato di particolari azioni peccaminose. (Giov. 9:2, 3) Altri versetti indicano i benèfici effetti della giustizia (il contrario di una condotta peccaminosa) sulla propria salute (Prov. 3:7, 8; 4:20-22; 14:30) e, durante il regno di Cristo, l’eliminazione della morte, che regna insieme al peccato (Rom. 5:21), sarà accompagnata dalla fine della sofferenza. — I Cor. 15:25, 26; Riv. 21:4.
PECCATO E LEGGE
L’apostolo Giovanni scrive che “chiunque pratica il peccato pratica anche l’illegalità, e il peccato è illegalità” (I Giov. 3:4), e che “ogni ingiustizia è peccato”. (I Giov. 5:17) L’apostolo Paolo d’altra parte parla di “quelli che hanno peccato senza legge”. E afferma inoltre che “fino alla Legge [data per mezzo di Mosè] il peccato era nel mondo, ma il peccato non è attribuito a nessuno quando non vi è legge. Tuttavia, la morte regnò da Adamo fino a Mosè, anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo”. (Rom. 2:12; 5:13, 14) Le parole di Paolo vanno intese nel contesto; le precedenti dichiarazioni fatte nella lettera ai romani indicano che faceva un paragone tra quelli sotto il patto della Legge e quelli estranei al patto (quindi non sotto il codice della legge), pur dimostrando che sia gli uni che gli altri erano peccatori. — Rom. 3:9.
Durante gli oltre 2.500 anni trascorsi fra la defezione di Adamo e l’istituzione del patto della Legge (nel 1513 a.E.V.), Dio non aveva dato al genere umano un esauriente codice o raccolta sistematica di leggi che definissero esattamente il peccato in tutte le sue forme e ramificazioni. È vero, aveva emanato certi decreti, come quelli dati a Noè dopo il diluvio universale (Gen. 9:1-7), e il patto della circoncisione fatto con Abraamo e la sua famiglia (schiavi stranieri inclusi). (Gen. 17:9-14) Ma a proposito di Israele il salmista poté dire che Dio “annuncia la sua parola a Giacobbe, i suoi regolamenti e le sue decisioni giudiziarie a Israele. Non ha fatto in tal modo a nessun’altra nazione; e in quanto alle sue decisioni giudiziarie, non le hanno conosciute”. (Sal. 147:19, 20; confronta Esodo 19:5, 6; Deuteronomio 4:8; 7:6, 11). Del patto della Legge data a Israele si poteva dire che “l’uomo che ha osservato la giustizia della Legge vivrà per essa”, poiché la perfetta fedeltà e sottomissione a quella Legge era possibile solo a un uomo senza peccato, come Cristo Gesù. (Rom. 10:5; Matt. 5:17; Giov. 8:46; Ebr. 4:15; 7:26; I Piet. 2:22) Non si poteva dire la stessa cosa di alcuna altra legge promulgata dal tempo di Adamo fino all’istituzione del patto della Legge.
‘Fare per natura le cose della legge’
Questo non significa che nel periodo da Adamo a Mosè gli uomini fossero senza peccato, solo perché non esisteva un esauriente codice di leggi secondo il quale giudicare il loro comportamento. In Romani 2:14, 15 (NW) Paolo dice: “Tutte le volte che persone delle nazioni che non hanno legge fanno per natura le cose della legge, queste persone, benché non abbiano legge, sono legge a se stesse. Esse sono le medesime che dimostrano come le cose della legge siano scritte nei loro cuori, mentre la loro coscienza rende testimonianza con loro e, nei loro propri pensieri, sono accusate o scusate”. Essendo stato in origine creato a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo ha una natura morale, per cui possiede la facoltà della coscienza. Pur essendo imperfetto, l’uomo peccatore conserva in parte questa facoltà, come indicano le parole di Paolo. (Vedi COSCIENZA). Poiché una legge è fondamentalmente una ‘regola di condotta’, questa natura morale agisce nel suo cuore come una legge. Tuttavia, sovrapposta a questa legge della sua natura morale, c’è un’altra legge che ha ereditato, la “legge del peccato”, che combatte contro le tendenze giuste, rendendo schiavi quelli che non resistono alla sua autorità. — Rom. 6:12; 7:22, 23.
Questa natura morale e la relativa coscienza sono evidenti anche nel caso di Caino; infatti, benché Dio non avesse dato alcuna legge circa l’omicidio, dopo aver assassinato Abele, Caino, con la sua risposta evasiva alla domanda rivoltagli da Dio, dimostrò che la coscienza lo condannava. (Gen. 4:8, 9) L’ebreo Giuseppe dimostrò di avere nel cuore la legge di Dio, rispondendo alla seducente richiesta della moglie di Potifar: “Come potrei dunque commettere questa grande empietà e peccare effettivamente contro Dio?” Anche se Dio non aveva espressamente condannato l’adulterio, Giuseppe riconosceva che era sbagliato, perché violava la volontà di Dio per gli esseri umani espressa in Eden. — Gen. 39:7-9; confronta Genesi 2:24.
Infatti le Scritture indicano che all’epoca dei patriarchi, da Abraamo ai dodici figli di Giacobbe, il “peccato” (hhattà’th) era menzionato da uomini di razze e nazioni diverse: poteva trattarsi di peccati contro il datore di lavoro (Gen. 31:36), contro un sovrano da parte dei sudditi (Gen. 40:1; 41:9), contro un parente (Gen. 42:22; 43:9; 50:17) o semplicemente un proprio simile. (Gen. 20:9) Ad ogni modo chi usava questo termine riconosceva così di avere una certa relazione con la persona contro cui il peccato era stato (o avrebbe potuto essere) commesso, con conseguente responsabilità di rispettare i suoi interessi (o la sua volontà e autorità, nel caso di un sovrano) e non contrastarli. Gli uomini davano così prova di avere una natura morale. Col passar del tempo però il potere del peccato su coloro che non servivano Dio crebbe sempre più, tanto che Paolo poté dire che gli uomini delle nazioni erano “mentalmente nelle tenebre, e alienati dalla vita che appartiene a Dio ... avendo superato ogni senso morale”. — Efes. 4:17-19.
Come la Legge faceva ‘abbondare’ il peccato
Anche se quel po’ di coscienza che l’uomo aveva gli permetteva di avere un certo naturale senso del bene e del male, ora Dio, facendo il patto con Israele, identificò precisamente il peccato nei suoi molteplici aspetti. La bocca di qualsiasi discendente degli amici di Dio, Abraamo, Isacco e Giacobbe, affermasse di essere senza peccato fu così “chiusa e tutto il mondo [divenne] soggetto a Dio per la punizione”. Questo perché la carne imperfetta ereditata da Adamo rendeva impossibile che fossero dichiarati giusti agli occhi di Dio mediante opere della legge, “perché mediante la legge si ha l’accurata conoscenza del peccato”. (Rom. 3:19, 20; Gal. 2:16) La Legge spiegava chiaramente quale fosse il raggio e campo d’azione del peccato, di modo che in effetti faceva ‘abbondare’ trasgressione e peccato, in quanto così tante azioni e anche tendenze erano ora dichiarate peccaminose. (Rom. 5:20; 7:7, 8; Gal. 3:19; confronta Salmo 40:12). I sacrifici servivano a ricordare di continuo a quelli sotto la Legge il loro stato peccaminoso. (Ebr. 10:1-4, 11) In questi modi la Legge agiva da tutore per condurli a Cristo, affinché potessero essere “dichiarati giusti a motivo della fede”. — Gal. 3:22-25.
ERRORI, TRASGRESSIONI, FALLI
Le Scritture spesso collegano “errore” (ebr. ʽawòn [“iniquità”, VR]), “trasgressione” (ebr. pèsha‘; gr. paràbasis), “fallo” (gr. paràptoma) e altri termini simili, col “peccato” (ebr. hhattà’th; gr. hamartìa). Tutti questi termini descrivono particolari aspetti e forme che assume il peccato.
Errori, sbagli e stoltezza
Infatti ʽawòn significa fondamentalmente sbagliare, agire in modo disonesto o scorretto. Significa commettere “iniquità” nel senso di “offesa all’equilibrio che la vera giustizia esige”. Questo termine ebraico si riferisce a un torto o errore morale, un travisare ciò che è giusto. (Giob. 10:6, 14, 15) Quelli che non si sottomettono alla volontà di Dio ovviamente non sono guidati dalla sua perfetta sapienza e giustizia, quindi sono destinati a sbagliare. (Confronta Isaia 59:1-3; Geremia 14:10; Filippesi 2:15). Senza dubbio a motivo del fatto che il peccato rende l’uomo ‘squilibrato’, ‘eccentrico’, pervertendo ciò che è retto (Giob. 33:27; Abac. 1:4), ʽawòn è il termine ebraico più spesso collegato o usato in parallelismi con hhattà’th (“peccato”). (Eso. 34:9; Deut. 19:15; Nee. 4:5; Sal. 32:5; 85:2; Isa. 27:9) Questo squilibrio provoca confusione e disaccordo nell’uomo stesso e difficoltà nei suoi rapporti con Dio e col resto della creazione di Dio.
L’“errore” (ʽawòn) può essere volontario o involontario, può essere un voluto allontanamento da ciò che è giusto o un atto inconsapevole, uno “sbaglio” (sheghaghàh), che tuttavia fa commettere un errore o una colpa di fronte a Dio. (Lev. 4:13-35; 5:1-6, 14-19; Num. 15:22-29; Sal. 19:12, 13) Naturalmente, se volontario l’errore aveva conseguenze molto più gravi che se commesso per sbaglio. (Num. 15:30, 31; confronta Lamentazioni 4:6, 13, 22). L’errore è il contrario della verità, e chi pecca volontariamente travisa la verità, condotta questa che non può che portare a un peccato più grave. (Confronta Isaia 5:18-23). Lo scrittore di Ebrei parla del “potere ingannatore del peccato”, che ha l’effetto di indurire il cuore dell’uomo. (Ebr. 3:13-15; confronta Esodo 9:27, 34, 35). Lo stesso scrittore, citando Geremia 31:34 (dove l’originale ebraico parlava di “errore” e “peccato” di Israele), in Ebrei 8:12 scrisse hamartìa (“peccato”) e adikìa (“opere ingiuste”) e, in Ebrei 10:17, hamartìa e anomìa (“opere illegali”).
Proverbi 24:9 dice che “la condotta dissoluta della stoltezza è peccato”, e alcuni termini ebraici resi stoltezza spesso sono usati in relazione al peccato, in quanto a volte il peccatore pentito riconosce di ‘aver agito stoltamente’. (I Sam. 26:21; II Sam. 24:10, 17) Se non viene disciplinato da Dio, il peccatore rimane sempre più intrappolato dai suoi errori e stoltamente lascia la retta via. — Prov. 5:22, 23; confronta 19:3.
Trasgressione
Il peccato può essere una “trasgressione”. Il sostantivo greco paràbasis (“trasgressione”) significa fondamentalmente un “andar oltre”, cioè passare certi limiti o confini, specie violando una legge. Matteo usa la forma verbale (parabàino) nel riferire la domanda dei farisei e degli scribi sul perché i discepoli di Gesù ‘trasgredissero la tradizione degli uomini dei tempi passati’, e la controdomanda di Gesù sul perché quegli oppositori ‘trasgredissero il comandamento di Dio a motivo della loro tradizione’, con la quale invalidavano la parola di Dio. (Matt. 15:1-6) Può significare anche ‘deviare’, come nel caso di Giuda che “deviò” dal suo ministero e apostolato. (Atti 1:25) In alcuni manoscritti greci lo stesso verbo viene usato a proposito di chi “va avanti, e non rimane nella dottrina dell’Unto”. — II Giov. 9, ED.
Nelle Scritture Ebraiche troviamo simili riferimenti al peccato di alcuni che ‘trasgredirono’ (ebr. ‘awàr) il patto o precisi ordini di Dio. — Num. 14:41; Deut. 17:2, 3; Gios. 7:11, 15; I Sam. 15:24; Isa. 24:5; Ger. 34:18.
L’apostolo Paolo indica la speciale relazione di paràbasis con la violazione di una legge stabilita dicendo che “dove non vi è legge, non vi è neppure trasgressione”. (Rom. 4:15) Quindi, nell’assenza di una legge, il peccatore non potrebbe definirsi “trasgressore”. Coerentemente Paolo e altri scrittori cristiani usano paràbasis (e parabàtes, “trasgressore”) nel contesto della legge. (Confronta Romani 2:23-27; Galati 2:16, 18; 3:19; Giacomo 2:9, 11). Adamo, avendo ricevuto da Dio un comando diretto, fu perciò colpevole di “trasgressione” di una legge stabilita. (Sua moglie, benché ingannata, fu pure colpevole di trasgressione di quella legge [I Tim. 2:14]). Il patto della Legge dichiarato a Mosè da angeli venne aggiunto al patto abraamico “per rendere manifeste le trasgressioni”, affinché ‘ogni cosa potesse essere consegnata alla custodia del peccato’, condannando legalmente tutti i discendenti di Adamo, Israele incluso, colpevoli di peccato, e dimostrando chiaramente che tutti avevano bisogno del perdono e della salvezza mediante la fede in Cristo Gesù. (Gal. 3:19-22) Quindi se Paolo si fosse nuovamente assoggettato alla legge mosaica, sarebbe diventato nuovamente “trasgressore” di quella Legge, soggetto alla sua condanna, e in tal modo avrebbe ‘respinto l’immeritata benignità di Dio’ che offriva la liberazione da quella condanna. — Gal. 2:18-21; confronta 3:1-4, 10.
L’ebraico pèsha’ dà l’idea di trasgressione (Sal. 51:3; Isa. 43:25-27; Ger. 33:8) e anche di “rivolta”, cioè allontanamento o rifiuto di riconoscere la legge o autorità altrui. (I Sam. 24:11; Giob. 13:23, 24; 34:37; Isa. 59:12, 13) La trasgressione volontaria costituisce dunque una ribellione contro l’autorità e il giusto governo di Dio. Contrappone la volontà della creatura alla volontà del Creatore e quindi costituisce una rivolta contro la sovranità di Dio.
Fallo
Il sostantivo greco paràptoma (derivato dal verbo parapìpto, lett. “cadere a lato”), indica un “passo falso” (Rom. 11:11, 12), un ‘fallo’. (Efes. 1:7; Col. 2:13) Mangiando il frutto proibito Adamo commise una “trasgressione” in quanto violò la legge di Dio; commise anche un “fallo” in quanto cadde o fece un passo falso invece di restare in piedi o camminare per la retta via in armonia con le giuste norme di Dio e sostenendo la sua autorità. I numerosi statuti e le norme del patto della Legge in effetti diedero adito a molti falli del genere dovuti all’imperfezione di coloro che avrebbero dovuto osservarla (Rom. 5:20); la nazione di Israele inciampò e cadde collettivamente in quanto a osservare quel patto. (Rom. 11:11, 12) Dato che tutti i vari statuti di quella Legge facevano parte di un unico patto, chi faceva un “passo falso” in un punto diventava violatore e “trasgressore” di quel patto nel suo insieme, e quindi di tutti i suoi statuti. — Giac. 2:10, 11.
“PECCATORI”
Poiché “non c’è nessun uomo che non pecchi” (II Cron. 6:36), tutti i discendenti di Adamo possono giustamente essere definiti “peccatori” per natura. Tuttavia nelle Scritture il termine “peccatori” di solito è usato in modo più specifico, per indicare chi pratica un peccato o ha fama di peccatore. Come tale i suoi peccati sono diventati di dominio pubblico. (Luca 7:37-39) Gli amalechiti che Geova aveva ordinato a Saul di annientare sono chiamati “peccatori” (I Sam. 15:18); il salmista pregava che Geova non togliesse la sua anima “insieme ai peccatori”, e le successive parole li identificano come “uomini colpevoli [di spargimento] di sangue, nelle cui mani è condotta dissoluta, e la cui destra è piena di regali”. (Sal. 26:9, 10; confronta Proverbi 1:10-19). Gesù fu accusato dai capi religiosi di stare in compagnia di “esattori di tasse e peccatori”, e gli esattori di tasse come classe avevano un pessima reputazione presso gli ebrei. (Matt. 9:10, 11) Gesù però disse che sia loro che le meretrici avrebbero preceduto i capi religiosi ebrei in quanto a entrare nel regno. (Matt. 21:31, 32) Zaccheo, esattore di tasse e, agli occhi di molti, “peccatore”, riconobbe di aver illegalmente estorto denaro da altri. — Luca 19:7, 8.
DIVERSA GRAVITÀ DELLA COLPA
Il peccato è peccato, e in ogni caso farebbe giustamente meritare al colpevole il “salario” del peccato: la morte. Tuttavia le Scritture indicano che Dio considera la colpa del genere umano secondo diversi gradi di gravità. Gli uomini di Sodoma erano “grandi peccatori contro Geova”, e il loro peccato era “molto grave”. (Gen. 13:13; 18:20; confronta II Timoteo 3:6, 7). Quello degli israeliti che fecero un vitello d’oro fu pure definito un “grande peccato” (Eso. 32:30, 31); e l’adorazione dei vitelli istituita da Geroboamo fece “peccare con un grande peccato” gli abitanti del regno settentrionale. (II Re 17:16, 21) Il peccato di Giuda divenne “simile a quello di Sodoma”, rendendo il regno di Giuda detestabile agli occhi di Dio. (Isa. 1:4, 10; 3:9; Lam. 1:8; 4:6) Un simile disprezzo per la volontà di Dio può far diventare peccato anche la preghiera. (Sal. 109:7, 8, 14) Dal momento che il peccato è un affronto alla persona stessa di Dio, egli non rimane indifferente, e come aumenta la gravità del peccato così aumenta comprensibilmente l’indignazione e l’ira di Dio. (Rom. 1:18; Deut. 29:22-28; Giob. 42:7; Sal. 21:8, 9) La sua ira però non dipende unicamente dal fatto che sia implicata la sua persona, ma è provocata anche dall’offesa e ingiustizia fatta a esseri umani e in particolare ai suoi fedeli servitori. — Isa. 10:1-4; Mal. 2:13-16; II Tess. 1:6-10.
Ignoranza e debolezza umana
Geova tiene conto della debolezza degli imperfetti discendenti di Adamo, infatti quelli che sinceramente Lo cercano possono dire: “Non ci ha fatto nemmeno secondo i nostri peccati; né secondo i nostri errori ha recato su di noi ciò che meritiamo”. Le Scritture rivelano la straordinaria misericordia e amorevole benignità che Dio ha manifestato con la pazienza che ha avuto con gli uomini di carne. (Sal. 103:2, 3, 10-18) Egli tiene conto dell’ignoranza che concorre al peccato (I Tim. 1:13; confronta Luca 12:47, 48), purché tale ignoranza non sia volontaria. Quelli che volutamente respingono la conoscenza e sapienza che Dio offre, ‘prendendo piacere nell’ingiustizia’, non hanno nessuna scusante. (II Tess. 2:9-12; Prov. 1:22-33; Osea 4:6-8) Alcuni si sviano temporaneamente dalla verità ma, se aiutati, si convertono (Giac. 5:19, 20), mentre altri ‘chiudono gli occhi alla luce e dimenticano di essere stati precedentemente purificati dai peccati’. — II Piet. 1:9.
Conoscenza e peccato imperdonabile
La conoscenza comporta quindi maggiore responsabilità. Il peccato di Pilato non fu così grande come quello dei capi religiosi ebrei che consegnarono Gesù al governatore, né come quello di Giuda, che tradì il suo Signore. (Giov. 19:11; 17:12) Ai farisei dei suoi giorni Gesù disse che se fossero stati ciechi, non avrebbero avuto nessun peccato, volendo evidentemente dire che i loro peccati avrebbero potuto essere perdonati da Dio a motivo della loro ignoranza; ma poiché negavano di essere nell’ignoranza, ‘il loro peccato rimaneva’. (Giov. 9:39-41) Sia essi che altri non avevano “nessuna scusa per il loro peccato”, perché erano stati testimoni delle potenti parole e opere di Gesù, risultato dello spirito di Dio che operava su di lui. (Giov. 15:22-24; Luca 4:18) Chi (a parole o con la condotta) volontariamente e consapevolmente bestemmiava lo spirito di Dio, manifestava di essere “colpevole di eterno peccato”, per cui non c’è perdono. (Matt. 12:31, 32; Mar. 3:28-30; confronta Giovanni 15:26; 16:7, 8). Questo poteva essere il caso di alcuni divenuti cristiani che poi deliberatamente si allontanavano dalla pura adorazione di Dio. Ebrei 10:26, 27 dichiara: “Se pratichiamo il peccato volontariamente dopo aver ricevuto l’accurata conoscenza della verità, non rimane più alcun sacrificio per i peccati, ma vi è una certa paurosa aspettazione del giudizio e vi è un’ardente gelosia che consumerà quelli in opposizione”.
In I Giovanni 5:16, 17, parlando di un “peccato che incorre nella morte”, a differenza di uno che non vi incorre, Giovanni evidentemente si riferiva a un peccato volontario, intenzionale. (Confronta Numeri 15:30). Se ci sono le prove che un peccato è volontario, intenzionale, il cristiano non pregherà per il colpevole. Dio naturalmente giudicherà la condizione di cuore del peccatore, ma in casi del genere il cristiano non rischia che le sue preghiere siano vane o dispiacciano a Dio. — Confronta Geremia 7:16; Matteo 5:44; Atti 7:60.
Un singolo peccato o una pratica di peccato
Giovanni inoltre distingue fra un singolo peccato e la pratica di peccare, come risulta dal confronto fra I Giovanni 2:1 e 3:4-8 nella Traduzione del Nuovo Mondo. Circa la correttezza della lezione “chiunque pratica il peccato [poiòn ten hamartìan]” (I Giov. 3:4), A. T. Robertson dice: “Il participio presente attivo (poiòn) indica l’abitudine di peccare”. Sul versetto 6, dove nel greco ricorre l’espressione oukh hamartànei, osserva: “Il presente ... indicativo attivo di hamartano, ‘non continua a peccare’”. (Word Pictures in the New Testament, Vol. VI, pp. 221, 222) Quindi il fedele cristiano qualche volta può cadere in un peccato per debolezza o essendo sviato, ma “non pratica il peccato” continuando a commetterlo. — I Giov. 3:9, 10; confronta I Corinti 15:33, 34; I Timoteo 5:20.
Partecipazione a peccati altrui
Uno può rendersi colpevole di peccato di fronte a Dio frequentando volontariamente malfattori e/o approvando le loro cattive azioni. (Confronta Salmo 50:18, 21). Coloro che rimangono nella simbolica città, “Babilonia la Grande”, ricevono perciò “parte delle sue piaghe”. (Riv. 18:2, 4-8) Il cristiano che cerchi la compagnia di chi abbandona l’insegnamento del Cristo, o anche gli rivolga un “saluto”, “partecipa alle sue opere malvage”. — II Giov. 9-11; confronta Tito 3:10, 11.
Timoteo fu esortato da Paolo a non “partecipare ai peccati altrui”. (I Tim. 5:22) Le precedenti parole di Paolo, “non porre mai le mani su nessun uomo affrettatamente”, si devono riferire all’autorità concessa a Timoteo di fare nomine di “anziani” o “sorveglianti” nelle congregazioni. Non doveva nominare un uomo convertito di recente, perché questi avrebbe potuto inorgoglirsi; se Timoteo non avesse seguito questo consiglio, ragionevolmente sarebbe stato in parte responsabile delle eventuali colpe di quello. — I Tim. 3:6.
In base a questi principi un’intera nazione poteva divenire colpevole di peccato dinanzi a Dio. — Prov. 14:34.
PECCATI CONTRO UOMINI E CONTRO DIO E CRISTO
Poiché solo Dio è il modello di giustizia e bontà, peccare contro esseri umani non significa mancare di conformarsi alla ‘immagine e somiglianza’ di questi, ma significa non rispettare i loro giusti e legittimi interessi, recare loro un’offesa, che li danneggia ingiustamente. (Giud. 11:12, 13, 27; I Sam. 19:4, 5; 20:1; 26:21; Ger. 37:18; II Cor. 11:7) Gesù stabilì i principi che il cristiano doveva seguire quando vedeva un altro peccare. (Matt. 18:15-17) Anche se suo fratello avesse peccato contro di lui settantasette volte, o sette volte in un solo giorno, lo doveva perdonare se, essendo stato rimproverato, mostrava pentimento. (Matt. 18:21, 22; Luca 17:3, 4; confronta I Pietro 4:8). Pietro parla di domestici schiaffeggiati per peccati commessi contro i loro proprietari. (I Piet. 2:18-20) Si può peccare contro l’autorità costituita non mostrando dovuto rispetto. Paolo si dichiarò innocente di qualsiasi peccato “contro la Legge dei Giudei [o] contro il tempio [o] contro Cesare”. — Atti 25:8.
I peccati contro gli esseri umani tuttavia sono anche peccati contro il Creatore, a cui gli uomini devono rendere conto. (Rom. 14:10, 12; Efes. 6:5-9; Ebr. 13:17) Dio, che trattenne Abimelec dall’avere rapporti con Sara, disse a quel re filisteo: “Ti ho anche trattenuto dal peccare contro di me”. (Gen. 20:1-7) Giuseppe riconobbe similmente che l’adulterio era un peccato contro il Creatore dell’uomo e della donna, che aveva istituito il matrimonio (Gen. 39:7-9), come lo riconobbe il re Davide. (II Sam. 12:13; Sal. 51:4) Peccati come furto, frode o appropriazione indebita sono classificati nella Legge come “infedeltà verso Geova”. (Lev. 6:2-4; Num. 5:6-8) Chi induriva il proprio cuore ed era spilorcio nei confronti dei fratelli poveri, o chi tratteneva il salario altrui, era soggetto a punizione divina. (Deut. 15:7-10; 24:14,15; confronta Proverbi 14:31; Amos 5:12). Samuele dichiarò: “È impensabile, da parte mia, peccare contro Geova cessando di pregare” a favore degli israeliti e su loro richiesta. — I Sam. 12:19-23.
Anche se tutti i peccati in realtà sono peccati contro di Lui, Geova Dio considera alcuni peccati più direttamente commessi contro la sua persona: peccati come idolatria (Eso. 20:2-5; II Re 22:17), mancanza di fede (Rom. 14:22, 23; Ebr. 10:37, 38; 12:1), mancanza di rispetto per le cose sacre (Num. 18:22, 23) e ogni forma di falsa adorazione. (Osea 8:11-14) Fu senza dubbio per questo che il sacerdote Eli disse ai suoi figli, i quali mancavano di rispetto al tabernacolo e al servizio di Dio, che “se un uomo dovesse peccare contro un uomo, Dio farebbe da arbitro per lui [confronta I Re 8:31, 32]; ma se un uomo dovesse peccare contro Geova, chi pregherebbe per lui?” — I Sam. 2:22-25; confronta vv. 12-17.
Peccare contro il proprio corpo
Nel mettere in guardia contro la fornicazione, Paolo dichiara che “ogni altro peccato che l’uomo commetta è fuori del suo corpo, ma chi pratica la fornicazione pecca contro il proprio corpo”. (I Cor. 6:18) La fornicazione in senso lato include l’adulterio. (Vedi FORNICAZIONE). Il contesto indica che Paolo stava dando risalto al fatto che i cristiani dovevano essere uniti al loro Signore e Capo, Cristo Gesù. (Vv. 13-15) Il fornicatore diventa in modo ingiusto e peccaminoso una sola carne con l’altra persona (spesso una meretrice). (Vv. 16-18) Dato che nessun altro peccato può separare il corpo del cristiano dall’unità con Cristo e renderlo “un solo corpo” con un altro, per questo evidentemente ogni altro peccato viene considerato ‘fuori del corpo’. Inoltre la fornicazione può provocare danno incurabile al corpo stesso del fornicatore.
PECCATI DEGLI ANGELI
Poiché anche i figli spirituali di Dio devono riflettere la Sua gloria e recargli lode, compiendo la sua volontà (Sal. 148:1, 2; 103:20, 21), possono peccare nello stesso senso fondamentale come gli esseri umani. In II Pietro 2:4 si legge che alcuni figli spirituali di Dio effettivamente peccarono e furono relegati in “fosse di dense tenebre per esser riservati al giudizio”. I Pietro 3:19, 20 si riferisce evidentemente alla stessa situazione parlando di “spiriti in prigione, che una volta erano stati disubbidienti quando la pazienza di Dio aspettava ai giorni di Noè”. E Giuda 6 indica che il peccato di tali creature spirituali consisteva nel ‘non aver mantenuto la loro posizione originale, ma aver abbandonato il proprio luogo di dimora’, luogo di dimora che logicamente si riferiva ai cieli della presenza di Dio.
Dato che il sacrificio di Gesù Cristo non include alcun provvedimento per coprire i peccati di creature spirituali, non c’è alcuna ragione di credere che i peccati di quegli angeli disubbidienti possano essere perdonati. (Ebr. 2:14-17) Come Adamo, erano creature perfette senza alcuna debolezza innata che potesse essere considerata un’attenuante nel giudicare la loro colpa. — Vedi PENTIMENTO; PERDONO; RICONCILIAZIONE; RISCATTO.
EVITARE IL PECCATO
L’amore per Dio e l’amore per il prossimo più di ogni altra cosa permette di evitare il peccato, che è illegalità, perché l’amore è una notevole qualità di Dio, ed Egli ne fece il fondamento della Legge che diede a Israele. (Matt. 22:27-40; Rom. 13:8-11) In tal modo il cristiano può essere, non alienato da Dio, ma in felice unione con lui e col Figlio suo. (I Giov. 1:3; 3:1-11, 24; 4:16) Si lascia guidare dallo spirito santo di Dio e può ‘vivere in quanto allo spirito dal punto di vista di Dio’, desistendo dai peccati (I Piet. 4:1-6) e producendo il giusto frutto dello spirito di Dio invece del cattivo frutto della carne peccaminosa. (Gal. 5:16-26) Così non si lascia signoreggiare dal peccato. — Rom. 6:12-22.
Avendo fede nella sicura ricompensa di Dio per la giustizia (Ebr. 11:1, 6), si può resistere al desiderio di provare il temporaneo godimento del peccato. (Ebr. 11:24-26) Sapendo che non si sfugge alla regola che “qualunque cosa l’uomo semini, questa pure mieterà”, si è protetti dall’allettamento del peccato. (Gal. 6:7, 8) Ci si rende conto che i peccati non possono rimanere nascosti per sempre (I Tim. 5:24) e che “benché il peccatore faccia il male cento volte e continui a lungo come gli piace”, tuttavia “andrà a finir bene a quelli che temono il vero Dio”, ma non al malvagio che non ha timore di Dio. (Eccl. 8:11-13; confronta Numeri 32:23; Proverbi 23:17, 18). Qualsiasi ricchezza materiale accumulata dal malvagio non potrà proteggerlo da Dio (Sof. 1:17, 18), e senza dubbio a suo tempo la ricchezza del malvagio si dimostrerà “qualche cosa riservata al giusto”. (Prov. 13:21, 22; Eccl. 2:26) Chi persegue la giustizia mediante la fede può evitare il “pesante carico”, la perdita della pace di mente e di cuore, la debolezza della malattia spirituale, provocate dal peccato. — Sal. 38:3-6, 18; 41:4.
La conoscenza della parola di Dio è la base di tale fede e il mezzo per rafforzarla. (Sal. 119:11; confronta 106:7). Chi s’affretta, senza cercare prima di sapere dove lo portino i suoi passi, non raggiungerà il suo obiettivo ma peccherà. (Prov. 19:2) Rendendosi conto che “un solo peccatore può distruggere molto di buono”, la persona giusta cercherà di agire con vera sapienza. (Confronta Ecclesiaste 9:18; 10:1-4). È saggio evitare la cattiva compagnia di coloro che praticano la falsa adorazione o di persone immorali, poiché possono indurre a peccare e corrompere utili abitudini. — Eso. 23:33; Nee. 13:25, 26; Sal. 26:9-11; Prov. 1:10-19; Eccl. 7:26; I Cor. 15:33, 34.
Ci sono naturalmente molte cose che si possono fare o non fare, oppure che si possono fare in un modo o nell’altro, senza incorrere in un peccato. (Confronta I Corinti 7:27, 28). Dio non impose all’uomo un’infinità di istruzioni che stabilissero nei minimi particolari come fare le cose. È chiaro che l’uomo doveva usare la propria intelligenza e aveva anche ampia facoltà di manifestare le sue preferenze e la sua personalità. Il patto della Legge conteneva molti statuti; eppure non privava gli uomini della loro libertà di espressione. Il cristianesimo, accentuando l’importanza dell’amore di Dio e del prossimo come regola di condotta, consente similmente agli uomini la più ampia libertà che la persona di cuore retto possa desiderare. — Confronta Matteo 22:37-40; Romani 8:21.