PENTIMENTO
“Pentirsi” significa “provare dolore o rimorso per ciò che si è o non si è fatto”, e anche “cambiare parere”. Include quindi l’idea di cambiare opinione rispetto a una condotta o azione passata (o qualcosa che si intendeva compiere), di cui ci si rammarica o si è insoddisfatti. In molti passi questo è il pensiero trasmesso dall’ebraico nachàm, che può significare “rammaricarsi, osservare un periodo di lutto, pentirsi” (Eso 13:17; Ge 38:12; Gb 42:6), anche se spesso ha il senso di “confortarsi” (2Sa 13:39; Ez 5:13) “liberarsi o disfarsi (per esempio dei propri nemici)”. (Isa 1:24) Sia nel senso di rammarico che di conforto, è evidente che implica un cambiamento di pensiero o sentimento.
In greco due verbi sono usati nel senso di pentirsi: metanoèo e metamèlomai. Il primo è composto da metà, che significa “dopo”, e noèo (da nous, mente, pensiero o coscienza morale) che significa “percepire, notare, afferrare, riconoscere o comprendere”. Quindi metanoèo (lett., riconosco dopo, in contrasto con preconosco) significa “cambiare parere, pensiero o proposito”. Metamèlomai invece deriva da mèlo, che significa “darsi pensiero, occuparsi”. Col prefisso metà il verbo assume il significato di “pentirsi” o “rammaricarsi”. — Mt 21:29; 2Co 7:8.
Metanoèo dà quindi risalto al mutato parere o pensiero, al rifiuto di una condotta o azione passata (o che si stava per compiere) perché indesiderabile (Ri 2:5; 3:3), mentre metamèlomai pone l’accento sul sentimento di rammarico provato dalla persona. (Mt 21:29) Il Grande Lessico del Nuovo Testamento (G. Kittel, Brescia, 1971, vol. VII, coll. 177, 178) osserva: “Quando dunque il N.T. distingue e separa, secondo il significato, [metamèlomai e metanoèo], manifesta una conoscenza chiara della natura inalterabile dei due concetti; l’uso della lingua ellenistica, invece, ha cancellato spesso i confini fra i due termini”.
Naturalmente un mutamento di pensiero spesso comporta un mutamento di sentimenti. Altre volte il sentimento di rammarico può precedere e favorire un netto mutamento di pensiero o di volontà. (1Sa 24:5-7) Perciò i due termini, pur avendo significato diverso, sono strettamente collegati.
Pentimento dell’uomo per i peccati. Il pentimento è reso necessario dal peccato, dal non aver soddisfatto i giusti requisiti di Dio. (1Gv 5:17) Dato che tutto il genere umano è stato assoggettato al peccato da Adamo, tutti i suoi discendenti hanno bisogno di pentirsi. (Sl 51:5; Ro 3:23; 5:12) Come viene spiegato alla voce RICONCILIAZIONE, il pentimento (seguito dalla conversione) è indispensabile perché l’uomo possa essere riconciliato con Dio.
Il pentimento può riguardare l’intero corso della propria vita, corso che era contrario al proposito e alla volontà di Dio ed era invece in armonia con il mondo dominato dall’Avversario di Dio. (1Pt 4:3; 1Gv 2:15-17; 5:19) Oppure può riguardare un particolare aspetto della propria vita, una pratica sbagliata che guasta e macchia una condotta altrimenti accettabile; può concernere una singola azione sbagliata o anche una tendenza o inclinazione errata. (Sl 141:3, 4; Pr 6:16-19; Gc 2:9; 4:13-17; 1Gv 2:1) Le colpe di cui ci si pente possono quindi abbracciare un campo molto ampio o essere abbastanza specifiche.
Similmente si può deviare dalla retta via in misura maggiore o minore e, logicamente, il rammarico dev’essere proporzionato all’entità della deviazione. Gli israeliti ‘erano andati così profondamente nella loro rivolta’ contro Geova che ‘marcivano’ nelle loro trasgressioni. (Isa 31:6; 64:5, 6; Ez 33:10) D’altra parte l’apostolo Paolo parla dell’“uomo [che] fa qualche passo falso prima che se ne renda conto”, e consiglia a coloro che sono spiritualmente qualificati di cercare “di ristabilire tale uomo con uno spirito di mitezza”. (Gal 6:1) Poiché Geova tiene misericordiosamente conto della debolezza carnale dei suoi servitori, essi non devono provare continuo rimorso per gli errori dovuti all’imperfezione innata. (Sl 103:8-14; 130:3) Se in coscienza camminano nelle vie di Dio, possono essere gioiosi. — Flp 4:4-6; 1Gv 3:19-22.
Chi si pente può essere uno che godeva di una buona relazione con Dio ma che si è sviato e ha perso il favore e la benedizione di Dio. (1Pt 2:25) Gli israeliti erano in un patto con Dio; erano un “popolo santo”, scelto fra tutte le nazioni (De 7:6; Eso 19:5, 6); anche i cristiani hanno ottenuto una condizione giusta davanti a Dio grazie al nuovo patto di cui Cristo è Mediatore. (1Co 11:25; 1Pt 2:9, 10) A coloro che si erano sviati, il pentimento avrebbe permesso di tornare in una giusta relazione con Dio e godere i benefìci e le benedizioni di questa relazione. (Ger 15:19-21; Gc 4:8-10) Per coloro che non hanno mai goduto tale relazione con Dio, come i popoli pagani delle nazioni non israelite al tempo in cui era in vigore il patto di Dio con Israele (Ef 2:11, 12), e anche per le persone di qualunque razza o nazionalità che non fanno parte della congregazione cristiana, il pentimento è un passo fondamentale ed essenziale per poter ottenere l’approvazione di Dio, con la speranza della vita eterna. — At 11:18; 17:30; 20:21.
Il pentimento può essere collettivo o individuale. La predicazione di Giona indusse tutta la popolazione di Ninive, dal re fino all’ultimo cittadino, a pentirsi, poiché agli occhi di Dio erano tutti colpevoli. (Gna 3:5-9; cfr. Ger 18:7, 8). L’intera congregazione degli israeliti tornati dall’esilio, dietro suggerimento di Esdra, riconobbe la colpa della comunità di fronte a Dio, manifestando pentimento per mezzo dei principi che li rappresentavano. (Esd 10:7-14; cfr. 2Cr 29:1, 10; 30:1-15; 31:1, 2). La congregazione di Corinto si pentì di aver tollerato un uomo che aveva tenuto una condotta molto peccaminosa. (Cfr. 2Co 7:8-11; 1Co 5:1-5). Neanche i profeti Geremia e Daniele si sentirono completamente estranei alla colpa quando confessarono le trasgressioni di Giuda che ne avevano provocato la caduta. — La 3:40-42; Da 9:4, 5.
Cosa richiede il vero pentimento. Il pentimento implica sia la mente che il cuore. Si deve ammettere che la propria condotta o azione è sbagliata, e quindi riconoscere che le norme e la volontà di Dio sono giuste. L’ignoranza o la negligenza nei confronti della volontà e delle norme di Dio ostacola il pentimento. (2Re 22:10, 11, 18, 19; Gna 1:1, 2; 4:11; Ro 10:2, 3) Per questa ragione Geova ha misericordiosamente mandato profeti e predicatori per invitare gli uomini al pentimento. (Ger 7:13; 25:4-6; Mr 1:14, 15; 6:12; Lu 24:27) Facendo annunciare la buona notizia per mezzo della congregazione cristiana, e in particolare dal tempo della conversione di Cornelio in poi, Dio “dice al genere umano che tutti, in ogni luogo, si pentano”. (At 17:22, 23, 29-31; 13:38, 39) La Parola di Dio — sia a voce che per iscritto — è il mezzo per ‘persuaderli’, convincerli, che la via di Dio è giusta e che le loro vie sono sbagliate. (Cfr. Lu 16:30, 31; 1Co 14:24, 25; Eb 4:12, 13). La legge di Dio “è perfetta, ridona l’anima”. — Sl 19:7.
Davide dice che ‘insegnerà le vie di Dio ai trasgressori affinché tornino a lui’ (Sl 51:13), e questi peccatori senza dubbio erano altri israeliti. A Timoteo fu detto di non contendere nei rapporti con i cristiani delle congregazioni in cui prestava servizio, ma di ‘istruire con mitezza quelli non favorevolmente disposti’, poiché Dio poteva concedere loro ‘il pentimento che conduce all’accurata conoscenza della verità, ed essi potevano tornare in sé dal laccio del Diavolo’. (2Tm 2:23-26) Quindi l’invito al pentimento può essere rivolto sia nell’ambito della congregazione del popolo di Dio che fuori di essa.
La persona deve rendersi conto di aver peccato contro Dio. (Sl 51:3, 4; Ger 3:25) Questo può essere abbastanza evidente quando si tratta di una palese o esplicita bestemmia, un’offesa verbale al nome di Dio, o dell’adorazione di altri dèi, per esempio mediante immagini idolatriche. (Eso 20:2-7) Ma anche in quella che si potrebbe considerare una “questione privata”, qualcosa fra due esseri umani, si deve riconoscere che gli errori commessi sono peccati contro Dio, una mancanza di rispetto verso Geova. (Cfr. 2Sa 12:7-14; Sl 51:4; Lu 15:21). Bisogna convenire che anche gli errori commessi per ignoranza o per sbaglio rendono colpevoli di fronte al Sovrano Signore, Geova Dio. — Cfr. Le 5:17-19; Sl 51:5, 6; 119:67; 1Tm 1:13-16.
Gran parte dell’opera dei profeti era diretta a convincere Israele dei suoi peccati (Isa 58:1, 2; Mic 3:8-11), sia che si trattasse di idolatria (Ez 14:6), ingiustizia, oppressione nei confronti del prossimo (Ger 34:14-16; Isa 1:16, 17), immoralità (Ger 5:7-9), o di confidare negli uomini e nella potenza militare delle nazioni anziché in Geova (1Sa 12:19-21; Ger 2:35-37; Os 12:6; 14:1-3). Il messaggio di Giovanni il Battezzatore e quello di Gesù Cristo erano inviti al pentimento rivolti agli ebrei. (Mt 3:1, 2, 7, 8; 4:17) Giovanni e Gesù smascherarono l’ipocrisia del popolo e dei capi religiosi, che osservavano tradizioni umane e si ritenevano giusti, e misero a nudo la condizione peccaminosa della nazione. — Lu 3:7, 8; Mt 15:1-9; 23:1-39; Gv 8:31-47; 9:40, 41.
Afferrare il significato col cuore. Il pentimento richiede quindi che prima un cuore sensibile spinga a udire e vedere con intendimento. (Cfr. Isa 6:9, 10; Mt 13:13-15; At 28:26, 27). Chi si pente non solo percepisce e afferra con la mente ciò che l’orecchio ode e ciò che l’occhio vede, ma, cosa ancora più importante, ‘ne afferra il significato [“il pensiero”, Gv 12:40] col cuore’. (Mt 13:15; At 28:27) Non si tratta perciò solo di riconoscere l’erroneità delle proprie vie a livello mentale, ma di riconoscerne la gravità nel proprio cuore. Chi ha già conoscenza di Dio può dover ‘richiamare in cuor suo’ questa conoscenza di Dio e i suoi comandamenti (De 4:39; cfr. Pr 24:32; Isa 44:18-20) così da ‘tornare in sé’. (1Re 8:47) Spinto dal giusto motivo di cuore, può ‘rinnovare la propria mente, provando a se stesso la buona e accettevole e perfetta volontà di Dio’. — Ro 12:2.
Se nel cuore si ha fede e amore per Dio, si proverà sincero rammarico e tristezza a motivo della condotta errata. Riconoscendo la bontà e la grandezza di Dio, i trasgressori proveranno profondo rimorso per aver vituperato il suo nome. (Cfr. Gb 42:1-6). L’amore per il prossimo li indurrà a rammaricarsi del male che hanno fatto ad altri, del cattivo esempio dato, forse del modo in cui hanno macchiato la reputazione del popolo di Dio fra gli estranei. Chiederanno perdono perché desiderano onorare il nome di Dio e operare per il bene del prossimo. (1Re 8:33, 34; Sl 25:7-11; 51:11-15; Da 9:18, 19) Pentendosi avranno “il cuore rotto”, si sentiranno ‘affranti e modesti di spirito’ (Sl 34:18; 51:17; Isa 57:15), saranno ‘contriti di spirito e tremanti alla parola di Dio’ (Isa 66:2), che invita al pentimento, e, in effetti, “verranno tremando a Geova e alla sua bontà”. (Os 3:5) Quando Davide agì sconsideratamente facendo un censimento, gli “batteva il cuore”. — 2Sa 24:10.
Si deve dunque abbandonare decisamente la condotta cattiva, odiarla di cuore e provarne ripugnanza (Sl 97:10; 101:3; 119:104; Ro 12:9; cfr. Eb 1:9; Gda 23), poiché “il timore di Geova significa odiare il male”, e questo include la superbia, l’orgoglio, la via cattiva e la bocca perversa. (Pr 8:13; 4:24) Insieme ci devono essere l’amore per la giustizia e la salda determinazione di tenere da quel momento in poi una condotta giusta. Senza l’odio per il male e l’amore per la giustizia mancherà un vero incentivo al pentimento, seguìto da una vera conversione. Il re Roboamo, ad esempio, si umiliò di fronte alla manifestazione dell’ira di Geova, ma poi “fece ciò che era male, poiché non aveva stabilito fermamente il suo cuore per ricercare Geova”. — 2Cr 12:12-14; cfr. Os 6:4-6.
Tristezza secondo Dio, non quella del mondo. L’apostolo Paolo, nella seconda lettera ai Corinti, parla della “tristezza secondo Dio” che essi avevano manifestato in seguito alla riprensione impartita loro nella sua prima lettera. (2Co 7:8-13) Egli si era ‘rammaricato’ (metamèlomai) di aver scritto loro così severamente e averli addolorati, ma non provava più alcun rammarico vedendo che la tristezza prodotta dal suo rimprovero era secondo Dio, in quanto aveva dato luogo a sincero pentimento (metànoia) per il loro comportamento e atteggiamento sbagliato. Sapeva che il dolore arrecato loro operava per il loro bene e non avrebbe causato alcun “danno”. Neanche la tristezza che portava al pentimento era qualcosa di cui dovessero rammaricarsi, poiché li faceva rimanere nella via della salvezza; impediva loro di sviarsi o di commettere apostasia e offriva la speranza della vita eterna. L’apostolo contrappone questa tristezza alla “tristezza del mondo [che] produce la morte”, la quale non scaturisce dalla fede e dall’amore per Dio e per la giustizia. La tristezza del mondo, causata da insuccesso, delusione, danno, punizione per l’errore e vergogna (cfr. Pr 5:3-14, 22, 23; 25:8-10), è spesso accompagnata da amarezza, risentimento, invidia, e non porta nessun durevole beneficio, nessun miglioramento, nessuna vera speranza. (Cfr. Pr 1:24-32; 1Ts 4:13, 14). La tristezza del mondo piange le spiacevoli conseguenze del peccato, ma non il peccato stesso né il disonore che esso reca al nome di Dio. — Isa 65:13-15; Ger 6:13-15, 22-26; Ri 18:9-11, 15, 17-19; vedi, al contrario, Ez 9:4.
Un esempio è quello di Caino, la prima persona che Dio invitò al pentimento. Caino fu avvertito da Dio di ‘volgersi a fare il bene’ affinché il peccato non avesse la meglio su di lui. Invece di pentirsi del suo odio omicida, egli lasciò che questo lo inducesse a uccidere il fratello. Interrogato da Dio, diede una risposta tortuosa, e solo quando fu emessa la sentenza contro di lui espresse rammarico, non per il male commesso, ma per la severità della punizione. (Ge 4:5-14) Dimostrò così di ‘aver avuto origine dal malvagio’. — 1Gv 3:12.
Anche Esaù, quando apprese che suo fratello Giacobbe aveva ricevuto la benedizione del primogenito (diritto che egli stesso gli aveva venduto con indifferenza), manifestò la tristezza del mondo. (Ge 25:29-34) Gridò con voce “estremamente alta e amara”, cercando con lacrime un “pentimento” (metànoia), non suo, ma un “mutamento di parere” da parte del padre. (Ge 27:34; Eb 12:17, Int) Si rammaricava per ciò che aveva perduto, non per la tendenza materialistica che l’aveva indotto a ‘disprezzare la primogenitura’. — Ge 25:34.
Giuda, dopo aver tradito Gesù, “provò rimorso (forma di metamèlomai)”, cercò di restituire il denaro pattuito per il tradimento e poi si suicidò impiccandosi. (Mt 27:3-5) Evidentemente fu sopraffatto dall’enormità del suo crimine e, probabilmente, dalla terribile certezza della condanna di Dio. (Cfr. Eb 10:26, 27, 31; Gc 2:19). Provò rimorso, senso di colpa, costernazione, perfino disperazione, ma nulla indica che abbia manifestato la tristezza secondo Dio che porta al pentimento (metànoia). Non si rivolse a Dio, ma ai capi ebrei per confessare loro il suo peccato e restituire il denaro, evidentemente con l’idea sbagliata che in tal modo avrebbe potuto attenuare la gravità del suo crimine. (Cfr. Gc 5:3, 4; Ez 7:19). Al delitto di aver tradito e fatto condannare a morte un innocente, aggiunse il suicidio. Il suo comportamento è in netto contrasto con quello di Pietro, il quale, dopo aver rinnegato il Signore, aveva il cuore così affranto che pianse amaramente, e ciò lo aiutò a ristabilirsi. — Mt 26:75; cfr. Lu 22:31, 32.
Rammarico, rimorso e lacrime non sono dunque un sicuro segno di vero pentimento: il motivo del cuore è determinante. Osea espresse la denuncia degli israeliti da parte di Geova, perché nella loro afflizione “non invocarono il [suo] aiuto con il loro cuore, benché continuassero a urlare sui loro letti. A causa del loro grano e del loro vino dolce continuarono ad andare a zonzo . . . E tornavano, non ad alcuna cosa più alta”. Lamentandosi per avere sollievo in un momento di calamità, avevano un motivo egoistico e, se avessero avuto sollievo, non ne avrebbero approfittato per migliorare la loro relazione con Dio attenendosi alle sue alte norme (cfr. Isa 55:8-11); erano come un “arco lento” che non colpisce mai il bersaglio. (Os 7:14-16; cfr. Sl 78:57; Gc 4:3). Era giusto digiunare, piangere e lamentarsi, ma solo se i penitenti si fossero ‘strappati il cuore’ e non semplicemente le vesti. — Gle 2:12, 13; vedi CORDOGLIO, LUTTO; DIGIUNO.
Confessione dell’errore. Chi si pente, quindi, si umilia e cerca la faccia di Dio (2Cr 7:13, 14; 33:10-13; Gc 4:6-10), implorando il suo perdono. (Mt 6:12) Non è come il fariseo dell’illustrazione di Gesù che si sentiva giusto, ma come l’esattore di tasse che Gesù descrisse nell’atto di battersi il petto e dire: “O Dio, sii misericordioso verso di me peccatore”. (Lu 18:9-14) L’apostolo Giovanni afferma: “Se facciamo la dichiarazione: ‘Non abbiamo nessun peccato’, sviamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni ingiustizia”. (1Gv 1:8, 9) “Chi copre le sue trasgressioni non riuscirà, ma a chi le confessa e le lascia sarà mostrata misericordia”. — Pr 28:13; cfr. Sl 32:3-5; Gsè 7:19-26; 1Tm 5:24.
La preghiera riportata in Daniele 9:15-19 è un modello di confessione sincera: Daniele si preoccupa innanzi tutto del nome di Geova e invoca il perdono “non secondo i nostri atti giusti . . . ma secondo le tue molte misericordie”. Si vedano anche le umili espressioni del figlio prodigo. (Lu 15:17-21) Chi è sinceramente pentito ‘innalza a Dio il proprio cuore insieme alle palme delle mani’, confessando la propria trasgressione e invocando perdono. — La 3:40-42.
Confessare i peccati gli uni agli altri. Il discepolo Giacomo consiglia: “Confessate apertamente i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri, affinché siate sanati”. (Gc 5:16) Tale confessione non avviene perché qualche essere umano agisca da “soccorritore [avvocato, CEI]” dell’uomo presso Dio, poiché soltanto Cristo può farlo in virtù del suo sacrificio propiziatorio. (1Gv 2:1, 2) Gli esseri umani, da sé, non possono riparare il male commesso nei confronti di Dio, né per sé né per altri, non essendo in grado di provvedere la necessaria espiazione. (Sl 49:7, 8) I cristiani però si possono aiutare l’un l’altro, e le preghiere a favore dei loro fratelli, pur non potendo influire sull’applicazione della giustizia da parte di Dio (dato che solo il riscatto di Cristo può recare la remissione dei peccati), hanno presso Dio valore di supplica affinché egli dia a chi ha peccato e chiede aiuto la forza e l’assistenza necessarie. — Vedi PREGHIERA (Risposta alle preghiere).
Conversione. Il pentimento segna la fine di una condotta sbagliata, il rifiuto di quella via errata e la determinazione di seguire la retta via. Se è sincero, sarà quindi seguito da una “conversione”. (At 15:3) Sia in ebraico che in greco i verbi relativi (ebr. shuv; gr. strèfo; epistrèfo) significano semplicemente “tornare, allontanare, voltarsi”. (Ge 18:10; Pr 15:1; Ger 18:4; Gv 21:20; At 15:36) In senso spirituale questo si può riferire sia a un allontanamento da Dio (quindi ritorno a una condotta peccaminosa [Nu 14:43; De 30:17]) sia a un ritorno a Dio da una precedente via sbagliata. — 1Re 8:33.
La conversione richiede più che un semplice stato d’animo o parole: ci vogliono “opere degne di pentimento”. (At 26:20; Mt 3:8) Occorre ricercare attivamente Geova, invocarlo con tutto il cuore e con tutta l’anima. (De 4:29; 1Re 8:48; Ger 29:12-14) Questo significa necessariamente ricercare il favore di Dio ‘ascoltando la sua voce’ espressa nella sua Parola (De 4:30; 30:2, 8), ‘mostrare perspicacia nella sua verità’ mediante un più profondo intendimento e apprezzamento delle sue vie e della sua volontà (Da 9:13), rispettare e mettere in pratica i suoi comandamenti (Ne 1:9; De 30:10; 2Re 23:24, 25), ‘osservare amorevole benignità e diritto’ e ‘sperare di continuo in Dio’ (Os 12:6), smettere di usare immagini religiose o di idoleggiare creature, così da ‘dirigere il cuore verso Geova senza deviare, e servire lui solo’ (1Sa 7:3; At 14:11-15; 1Ts 1:9, 10), e camminare nelle sue vie e non nelle vie delle nazioni (Le 20:23) o nelle proprie (Isa 55:6-8). Le preghiere, i sacrifici, i digiuni e l’osservanza di feste sacre non hanno senso né valore presso Dio a meno che non siano accompagnati da opere buone, giustizia, rinuncia all’oppressione e alla violenza, e misericordia. — Isa 1:10-19; 58:3-7; Ger 18:11.
Ci vogliono quindi “un cuore nuovo e uno spirito nuovo” (Ez 18:31); un mutato modo di pensare, un motivo e un indirizzo diverso nella vita producono uno stato d’animo, un’inclinazione e una forza morale nuovi. Per coloro che cambiano vita il risultato è ‘una nuova personalità creata secondo la volontà di Dio in vera giustizia e lealtà’ (Ef 4:17-24), libera da immoralità, concupiscenza, parole o azioni violente. (Col 3:5-10; vedi, al contrario, Os 5:4-6). Per costoro Dio fa “sgorgare” lo spirito di sapienza, facendo conoscere loro le sue parole. — Pr 1:23; cfr. 2Tm 2:25.
Il sincero pentimento ha quindi un vero impatto, produce forza, spinge a cambiare strada. (At 3:19) Perciò Gesù poté dire ai laodicesi: “Sii zelante e pentiti”. (Ri 3:19; cfr. Ri 2:5; 3:2, 3). Ne risultano ‘grande premura, indignazione, timor di Dio, ardente desiderio, e correzione del torto’. (2Co 7:10, 11) Chi non si preoccupa di correggere i torti commessi non mostra vero pentimento. — Cfr. Ez 33:14, 15; Lu 19:8.
L’espressione “uomo convertito di recente” traduce il greco neòfytos (da cui l’italiano “neofita”), che letteralmente significa “piantato da poco”. (1Tm 3:6) A un uomo del genere non si devono affidare incarichi di servizio nella congregazione affinché non “si gonfi d’orgoglio e cada nel giudizio emesso contro il Diavolo”.
Di quali “opere morte” i cristiani devono pentirsi?
Ebrei 6:1, 2 indica che la “dottrina primaria” include “il pentimento dalle opere morte e la fede verso Dio”, a cui fanno seguito l’insegnamento di battesimi, l’imposizione delle mani, la risurrezione e il giudizio eterno. Le “opere morte” (espressione che ricorre soltanto qui e in Eb 9:14) non sono semplicemente opere peccaminose, opere della carne decaduta che portano alla morte (Ro 8:6; Gal 6:8), ma tutte le opere che in se stesse sono spiritualmente morte, vane, infruttuose.
Questo includerebbe le opere di autogiustificazione, i tentativi umani di stabilire la propria giustizia indipendentemente da Cristo Gesù e dal suo sacrificio di riscatto. Quindi l’osservanza formale della Legge da parte dei capi religiosi ebrei e di altri costituiva “opere morte” perché mancava una componente necessaria, la fede. (Ro 9:30-33; 10:2-4) Invece di indurli a pentirsi, ciò li fece inciampare in Cristo Gesù, costituito da Dio “principale Agente . . . per dare a Israele pentimento e perdono dei peccati”. (At 5:31-33; 10:43; 20:21) Quindi anche l’osservanza della Legge, come se fosse stata ancora in vigore, diventò “opere morte” dopo che Cristo l’ebbe adempiuta. (Gal 2:16) Similmente tutte le opere che altrimenti potrebbero avere un certo valore diventano “opere morte” se non sono motivate dall’amore, amore per Dio e per il prossimo. (1Co 13:1-3) L’amore, a sua volta, deve essere “con opera e verità”, in armonia con la volontà e le vie di Dio rivelateci tramite la sua Parola. (1Gv 3:18; 5:2, 3; Mt 7:21-23; 15:6-9; Eb 4:12) Chi si rivolge a Dio con fede per mezzo di Cristo Gesù, si pente di tutte le opere giustamente considerate “opere morte”, e da quel momento in poi le evita, avendo così la coscienza pura. — Eb 9:14.
Tranne che nel caso di Gesù, il battesimo (immersione in acqua) era un simbolo provveduto da Dio che aveva a che fare col pentimento, sia da parte di componenti della nazione ebraica (che non aveva osservato il patto di Dio mentre era in vigore) sia da parte di persone delle nazioni che si ‘convertivano’ per rendere sacro servizio a Dio. — Mt 3:11; At 2:38; 10:45-48; 13:23, 24; 19:4; vedi BATTESIMO.
Impenitenti. Per mancanza di vero pentimento Israele e Giuda finirono in esilio, Gerusalemme fu distrutta due volte e, alla fine, la nazione venne completamente rigettata da Dio. Quando venivano ripresi, gli israeliti non tornavano realmente a Dio, ma continuavano a ricadere nella “condotta popolare, come il cavallo che si lancia nella battaglia”. (Ger 8:4-6; 2Re 17:12-23; 2Cr 36:11-21; Lu 19:41-44; Mt 21:33-43; 23:37, 38) Poiché nel loro cuore non desideravano pentirsi e convertirsi, quello che vedevano e udivano non portava né intendimento né conoscenza: sul loro cuore era steso un “velo”. (Isa 6:9, 10; 2Co 3:12-18; 4:3, 4) Capi religiosi e profeti infedeli, e anche false profetesse, contribuirono a questo stato di cose, rafforzando il popolo nel suo errore. (Ger 23:14; Ez 13:17, 22, 23; Mt 23:13, 15) Profezie cristiane predicevano che una futura azione divina di riprensione e di invito al pentimento sarebbe similmente stata respinta da molti. Le sofferenze li avrebbero soltanto induriti e inaspriti tanto che avrebbero bestemmiato Dio, anche se la radice e la causa prima di tutti i loro guai e le loro piaghe sarebbe stato il rifiuto di attenersi alle sue giuste vie. (Ri 9:20, 21; 16:9, 11) Costoro ‘si accumulano ira nel giorno della rivelazione del giudizio di Dio’. — Ro 2:5.
Pentimento impossibile. Coloro che ‘praticano il peccato volontariamente’ dopo aver acquistato accurata conoscenza della verità non hanno più la possibilità di pentirsi, poiché hanno rifiutato lo scopo stesso per cui il Figlio di Dio è morto e si sono così uniti a coloro che lo condannarono a morte. In effetti “mettono di nuovo al palo il Figlio di Dio per loro conto e lo espongono a pubblica vergogna”. (Eb 6:4-8; 10:26-29) Questo è dunque il peccato imperdonabile. (Mr 3:28, 29) Sarebbe stato meglio per loro “non avere accuratamente conosciuto il sentiero della giustizia che, dopo averlo accuratamente conosciuto, allontanarsi dal santo comandamento loro trasmesso”. — 2Pt 2:20-22.
Dal momento che Adamo ed Eva erano creature perfette, e il comando dato loro da Dio era esplicito ed era stato compreso da entrambi, è evidente che il loro peccato fu deliberato e non scusabile a motivo di qualche debolezza o imperfezione umana. Quindi le parole in seguito rivolte loro da Dio non erano un invito al pentimento. (Ge 3:16-24) Lo stesso dicasi della creatura spirituale che li aveva indotti a ribellarsi. La fine sua e delle altre creature angeliche che si sono unite a lui è la distruzione eterna. (Ge 3:14, 15; Mt 25:41) Giuda, benché imperfetto, era stato intimo compagno dello stesso Figlio di Dio, eppure divenne traditore; Gesù stesso lo chiamò “il figlio della distruzione”. (Gv 17:12) L’apostata “uomo dell’illegalità” viene pure chiamato “il figlio della distruzione”. (2Ts 2:3; vedi ANTICRISTO; APOSTASIA; UOMO DELL’ILLEGALITÀ). Anche tutti quelli classificati come simbolici “capri” al momento del giudizio del genere umano da parte del regnante Gesù “andranno allo stroncamento eterno”, e non è rivolto loro alcun invito al pentimento. — Mt 25:33, 41-46.
Un’opportunità tramite la risurrezione. Rivolgendosi a certe città giudee del I secolo, Gesù fece invece riferimento a un futuro giorno di giudizio che le avrebbe riguardate. (Mt 10:14, 15; 11:20-24) Questo implica che almeno alcuni abitanti di quelle città saranno risuscitati, e anche se l’atteggiamento impenitente di un tempo renderà loro molto difficile pentirsi, avranno l’opportunità di manifestare umile pentimento e di convertirsi volgendosi a Dio tramite Cristo. Chi non lo farà sarà distrutto in eterno. (Cfr. Ri 20:11-15; vedi GIORNO DEL GIUDIZIO). Quelli invece che seguono una condotta simile a quella di molti scribi e farisei, i quali deliberatamente e coscientemente si opposero alla manifestazione dello spirito di Dio mediante Cristo, non riceveranno alcuna risurrezione, per cui non possono ‘sfuggire al giudizio della Geenna’. — Mt 23:13, 33; Mr 3:22-30.
Il malfattore al palo. Al malfattore che mostrò una certa fede in Gesù, al palo accanto a lui, fu promesso che sarebbe stato in Paradiso. (Lu 23:39-43; vedi PARADISO). Alcuni vorrebbero leggere in questa promessa l’idea che al malfattore venisse così garantita la vita eterna, ma i molti passi biblici già considerati lo escludono. Benché il malfattore avesse riconosciuto l’erroneità della sua attività criminosa in contrasto con l’innocenza di Gesù (Lu 23:41), nulla indica che avesse imparato a ‘odiare la malvagità e ad amare la giustizia’; in punto di morte non era ovviamente in condizione di convertirsi e compiere “opere degne di pentimento”; non era stato battezzato. (At 3:19; 26:20) Pare quindi che una volta risuscitato egli riceverà l’opportunità di intraprendere questa condotta. — Cfr. Ri 20:12, 13.
Come può Dio, che è perfetto, “provare rammarico”?
Nella maggior parte dei casi in cui viene usato nel senso di “rammaricarsi” il verbo ebraico nachàm si riferisce a Geova Dio. In Genesi 6:6, 7 si legge che “Geova si rammaricò di aver fatto gli uomini sulla terra, e se ne addolorò nel suo cuore”; la loro malvagità era così grande che Dio decise di spazzarli via dalla superficie della terra mediante il diluvio universale. Questo non può significare che Dio provò rammarico nel senso che pensò di aver fatto uno sbaglio nella sua opera creativa, dato che “la sua attività è perfetta”. (De 32:4, 5) Il rammarico è l’opposto della piacevole soddisfazione e della gioia. Quindi Dio dovette rammaricarsi del fatto che, dopo aver creato gli uomini, era ora costretto (e giustamente) a distruggerli tutti a motivo della loro condotta empia, eccetto Noè e la sua famiglia. Infatti Dio ‘non prova diletto nella morte del malvagio’. — Ez 33:11.
La Cyclopædia di M’Clintock e Strong osserva: “È detto che Dio stesso si pente [nachàm, provare rammarico]; ma ciò può intendersi solo nel senso che egli modifica il suo comportamento nei confronti delle sue creature, benedicendole o castigandole; questa modifica del comportamento di Dio dipende da qualche cambiamento avvenuto nelle sue creature; così, esprimendo il concetto con linguaggio umano, è detto che Dio si pente”. (1894, vol. VIII, p. 1042) Le giuste norme di Dio sono costanti, stabili, immutabili, non soggette a variazione. (Mal 3:6; Gc 1:17) Nessuna circostanza può fargli cambiare parere sulle sue norme, indurlo ad allontanarsene o ad abbandonarle. Tuttavia l’atteggiamento e le reazioni delle creature intelligenti nei confronti di queste norme perfette e del modo in cui Dio le applica possono essere buoni o cattivi. Se sono buoni, Dio si compiace; se sono cattivi, si rammarica. Inoltre l’atteggiamento della creatura da buono può diventare cattivo o da cattivo, buono; in maniera corrispondente, dato che Dio non muta le sue norme per fare concessioni, il suo compiacimento (con conseguenti benedizioni) può trasformarsi in rammarico (con conseguente disciplina o punizione) e viceversa. Nei suoi giudizi e nelle sue decisioni sono dunque assolutamente assenti capriccio, volubilità, instabilità o errore; quindi il suo comportamento non è mai eccentrico o imprevedibile. — Ez 18:21-30; 33:7-20.
Un vasaio potrebbe cominciare a fare un tipo di vaso e poi farne un altro se il vaso ‘si rovina nella sua mano’. (Ger 18:3, 4) Con questo esempio Geova vuole illustrare non che egli sia come un vasaio umano che può ‘rovinare un vaso con la sua mano’, ma che, in quanto Dio, egli ha autorità sul genere umano, autorità di modificare il proprio comportamento nei confronti degli uomini a seconda di come essi reagiscono alla sua giustizia e misericordia. (Cfr. Isa 45:9; Ro 9:19-21). Egli può quindi ‘rammaricarsi della calamità che aveva pensato di eseguire’ su una nazione o ‘rammaricarsi del bene che aveva detto a se stesso di fare per il bene’ di quella nazione, sempre a seconda di come la nazione ha reagito al modo in cui egli l’aveva trattata. (Ger 18:5-10) Non è quindi il grande Vasaio, Geova, a sbagliare, ma è l’“argilla” umana a subire una “metamorfosi” (cambiamento di forma o composizione) nella propria condizione di cuore, cosa che può spingere Geova a provare rammarico o a mutare i suoi sentimenti.
Questo vale sia per i singoli individui che per le nazioni, e il fatto stesso che Geova Dio dica di ‘rammaricarsi’ per certi suoi servitori, come il re Saul, che deviò dalla giustizia, mostra che egli non predestina il futuro di tali persone. (Vedi PRESCIENZA, PREORDINAZIONE). Che Dio si rammaricasse per la defezione di Saul non significa che avesse sbagliato a sceglierlo come re e dovesse rammaricarsi per questo. Dio deve aver provato rammarico perché Saul, nel suo libero arbitrio, non aveva fatto buon uso dello splendido privilegio e dell’opportunità che Dio gli aveva offerto, e perché con il suo voltafaccia Saul costringeva Dio a cambiare i suoi rapporti con lui. — 1Sa 15:10, 11, 26.
Il profeta Samuele, nel dichiarare il giudizio di Dio contro Saul, disse: “L’Eccellenza d’Israele non si mostrerà falsa, e non si rammaricherà, poiché non è un uomo terreno da provare rammarico”. (1Sa 15:28, 29) Gli uomini spesso non mantengono la parola, non adempiono le promesse fatte e non rispettano gli accordi; essendo imperfetti, commettono errori di giudizio, di cui poi si rammaricano. A Dio questo non succede mai. — Sl 132:11; Isa 45:23, 24; 55:10, 11.
Per esempio, il patto che Dio fece con “ogni carne” dopo il Diluvio garantiva incondizionatamente che egli non avrebbe più portato un diluvio di acque su tutta la terra. (Ge 9:8-17) Non c’è quindi nessuna possibilità che Dio cambi idea rispetto a quel patto, o ‘se ne rammarichi’. Similmente, nel suo patto con Abraamo, Dio “intervenne con un giuramento” quale “garanzia legale”, così da “dimostrare più abbondantemente agli eredi della promessa l’immutabilità del suo consiglio”, essendo la sua promessa e il suo giuramento “due cose immutabili nelle quali è impossibile che Dio menta”. (Eb 6:13-18) Anche il patto di Dio con suo Figlio perché fosse sacerdote alla maniera di Melchisedec, patto avvalorato da un giuramento, era qualcosa di cui Dio ‘non si sarebbe rammaricato’. — Eb 7:20, 21; Sl 110:4; cfr. Ro 11:29.
Comunque, nel fare una promessa o un patto, Dio può stabilire le condizioni, i requisiti che i destinatari della promessa o del patto devono soddisfare. Egli promise agli israeliti che sarebbero divenuti la sua “speciale proprietà” e “un regno di sacerdoti e una nazione santa”, se avessero ubbidito strettamente alla sua voce e osservato il suo patto. (Eso 19:5, 6) Dio rispettò il patto, ma gli israeliti no; essi lo violarono ripetutamente. (Mal 3:6, 7; cfr. Ne 9:16-19, 26-31). Perciò quando infine Dio annullò quel patto non commise nessuna ingiustizia, in quanto la responsabilità del mancato adempimento della promessa ricadeva interamente sugli israeliti trasgressori. — Mt 21:43; Eb 8:7-9.
Allo stesso modo Dio può ‘rammaricarsi’ e non mandare più un determinato castigo quando, in seguito al suo avvertimento, gli offensori cambiano atteggiamento e condotta. (De 13:17; Sl 90:13) Essi sono tornati a lui ed egli ‘torna’ a loro. (Zac 8:3; Mal 3:7) Invece di essere ‘addolorato’, ora egli si rallegra, poiché non prova nessun diletto nel mettere a morte i peccatori. (Lu 15:10; Ez 18:32) Pur non deviando mai dalle sue giuste norme, Dio offre aiuto ai singoli individui perché tornino a lui; li incoraggia a farlo. Li invita benignamente a tornare, ‘stendendo le sue mani’ e dicendo tramite i suoi rappresentanti: “Volgetevi, suvvia, . . . in modo che io non vi causi calamità”, e: “Non fate, suvvia, questa sorta di cosa detestabile che ho odiato”. (Isa 65:1, 2; Ger 25:5, 6; 44:4, 5) Egli concede un tempo più che sufficiente per cambiare (Ne 9:30; cfr. Ri 2:20-23) e mostra grande pazienza e sopportazione, dato che “non desidera che alcuno sia distrutto ma desidera che tutti pervengano al pentimento”. (2Pt 3:8, 9; Ro 2:4, 5) Benignamente, a volte fece accompagnare il suo messaggio da opere potenti, o miracoli, a conferma dell’incarico divino dei suoi messaggeri, e rafforzò la fede degli ascoltatori. (At 9:32-35) Quando il suo messaggio non viene ascoltato, egli ricorre alla disciplina; ritira il suo favore e la sua protezione, lasciando così che gli impenitenti subiscano privazioni, carestia, sofferenze e oppressione da parte del nemico. Questo può farli tornare in sé, instillare nuovamente in loro il giusto timor di Dio o indurli a realizzare che la loro condotta è stolta e la loro scala dei valori è sbagliata. — 2Cr 33:10-13; Ne 9:28, 29; Am 4:6-11.
La sua pazienza ha comunque dei limiti, raggiunti i quali Dio ‘si stanca di provare rammarico’; a quel punto la sua decisione di inviare il castigo non può essere modificata. (Ger 15:6, 7; 23:19, 20; Le 26:14-33) Egli non si limita più a ‘pensare’ o ‘formare’ contro di loro una calamità (Ger 18:11; 26:3-6), ma ha preso una decisione irrevocabile. — 2Re 23:24-27; Isa 43:13; Ger 4:28; Sof 3:8; Ri 11:17, 18.
La disponibilità di Dio a perdonare chi si pente, e ad aprire misericordiosamente la via al perdono nonostante le ripetute offese, costituisce un esempio per tutti i suoi servitori. — Mt 18:21, 22; Mr 3:28; Lu 17:3, 4; 1Gv 1:9; vedi PERDONO.