Sono un aborigeno australiano
Narrato al corrispondente di “Svegliatevi!” in Australia
SONO un aborigeno australiano. Mi chiamo Warwirra. Nel mio paese, per distinguerci dagli emigranti della prima generazione che chiamiamo “nuovi Australiani”, usiamo il termine “veri Australiani” per i cittadini nati nel paese. Io sono un “vero Australiano”.
D’aspetto sono molto simile agli altri aborigeni, poiché sebbene siamo di molte tribù tuttavia abbiamo una sola origine. Abbiamo la testa più lunga di quella della maggioranza, la fronte sfuggente e l’arco sopracciliare prominente. Abbiamo i capelli ricciuti, le narici schiacciate e la bocca larga, con denti bianchi. Abbiamo una corporatura media, ma gli arti sono lunghi e sottili. La nostra pelle è di color bruno nerastro. La gente dice che quelli che ci somigliano di più sono la tribù selvaggia dei Vedda di Ceylon e le tribù dei colli dell’India.
Abito in un’umile casa di mattoni cotti al sole, ma i miei antenati non vivevano così. In questa come in altre cose, siamo cambiati. Di conseguenza, proviamo spesso l’ardente desiderio di vivere senza fissa dimora. Quando sentiamo questo impulso, lasciamo le nostre case e andiamo nella boscaglia, per vivere dei prodotti del suolo come facevano i nostri padri.
La ragione di questo impulso è che nella mente di ogni aborigeno vi è ciò che chiamiamo “tempo dei sogni”, intendendo la nostra storia tribale e il nostro primitivo modo di vivere. Il nostalgico desiderio dei giorni del “tempo dei sogni” sembra innato in noi. Prima che il capitano Cook sbarcasse nella Botany Bay il nostro modo di vivere era molto diverso da ora, era una vita dura, ma libera. Per reciproco accordo la mia tribù e altre avevano diritto a territori universalmente rispettati. C’erano confini, ma non erano deturpati da recinti e porte. Entro ciascun territorio tribale c’erano luoghi “sacri” che erano per noi come Parigi per i Francesi o Londra per gli Inglesi.
Non tutti i nostri sogni sono felici. In essi ci sono ricordi di spaventose carneficine. Quando gli Europei si furono stabiliti nel paese, non tennero conto dei nostri diritti territoriali e si accinsero a sterminarci. Gradualmente fummo degradati allo stato di servi nella nostra stessa terra. Perfino nel recente 1942 mentre, per colmo dell’ironia, l’Australia era in guerra con Hitler per la controversia del genocidio, un membro del parlamento dell’Australia Occidentale sostenne: “Sarà un giorno felice per l’Australia Occidentale e l’Australia in generale quando i nativi e i canguri spariranno. . . . Riguardo a questo problema ogni sdolcinato sentimento dovrebbe essere soffocato. È venuto il tempo per una drastica e positiva azione”.
Per i sogni più felici dobbiamo risalire a prima che arrivassero gli Europei. Amavamo la nostra terra e la coltivavamo con cura, ma facevamo questo a nostro modo. Per esempio, non rinchiudevamo il bestiame o i canguri in recinti. Non avevamo né trattore né aratro. Il nostro modo di fare si addiceva maggiormente ai nostri bisogni.
Ricca tradizione naturale
Viaggiavamo in tutto il nostro territorio, raccogliendo ciò che era cresciuto da sé e alcune tribù, seminavano mentre raccoglievano. La nostra mente era sempre rivolta alla successiva visita che avremmo fatto nella zona. Era nei nostri interessi conservare ciò che ci sarebbe servito alla successiva visita. Facevamo incisioni negli alberi contenenti acqua, ma poi le tamponavamo attentamente; scavavamo buche per tirar fuori l’acqua, e poi le coprivamo con la sabbia per impedire l’evaporazione; uccidevamo per mangiare, ma mai un animale gravido; pescavamo la razza, ma nei periodi di riproduzione la lasciavamo andare.
Con questi metodi, caratteristici del nostro modo di vivere, avevamo dunque cura della nostra terra. È vero che non mietevamo grandi raccolti come si fa oggi, ma quello che ci procuravamo era molto nutriente e ne avevamo una provvista regolare e fresca.
Il successo dei nostri metodi dipendeva da considerevole conoscenza e abilità. La sopravvivenza dipendeva dall’accumulare nei nostri sogni una ricca tradizione naturale. Osservate ciò che dice al riguardo questo libro (The Australian Aborigine di A. P. Elkin): “Per l’aborigeno la natura è un sistema in cui le specie e i fenomeni naturali sono collegati o associati nello spazio e nel tempo. La comparsa di un oggetto, per esempio di un . . . uccello o di un fiore o di un insetto, è divenuta il segno attraverso l’osservazione nel corso dei secoli che arriva la pioggia, che i pesci migrano, che qualche particolare animale o rettile sarà presto presente in grande quantità, che le patate dolci o altri tuberi si possono raccogliere, o che certi frutti sono maturi. . . . I fiori gialli dell’acacia australiana sono il segno che le Anseranatre appariranno sulle loro rotte annuali, sopra i giganteschi alberi di caieput di palude in palude per mangiare i tuberi delle ninfee. Gli uomini costruiscono dunque impalcature sui rami di alberi prescelti e, in attesa, imitano il grido delle anatre, che allora volteggiano sopra l’albero e vi si posano. Ma quando fanno questo, sono abbattute al suolo da bastoni lanciati con precisione dagli uomini che sono ai piedi dell’albero”.
Tristemente, oggi molte di queste capacità sono andate perdute. Per esempio, l’arte di seguire le tracce. È vero che la polizia si serve ancora degli aborigeni per rintracciare le persone che si sono smarrite nella boscaglia, ma le persone capaci di seguire bene le tracce stanno rapidamente diventando scarse. Ma allora nel tempo dei sogni ne dipendeva la nostra vita. Dall’infanzia veniva insegnato ai ragazzi a esaminare minuziosamente il suolo e a leggere la storia che aveva da narrare, riuscendo a far questo con la stessa facilità con cui oggi mio figlio legge i suoi libri di scuola. Da adulti potevamo dirvi la storia di qualsiasi pezzo di terra, anche della dura roccia, quale uomo, animale o rettile vi era passato e quando. Potevamo seguire per giorni queste tracce. Le tracce lasciate da una persona, che prima la conoscessimo o no, ci dicevano molto di lei; se era alta o bassa, grassa o magra, uomo o donna, malata o sana, bianca o un aborigeno. Mentre le seguivamo potevamo narrare ciò che aveva fatto lungo il cammino.
Il seguire le tracce richiedeva considerevole pazienza e perseveranza. Potevamo seguire le tracce di un animale per tutto il giorno, e al cadere della sera metterci a dormire e il giorno dopo ricominciare finché raggiungevamo la preda. Se per nostra negligenza l’animale si accorgeva della nostra presenza e ci sfuggiva, allora ricominciavamo tutto da capo finché in ultimo potevamo raggiungerlo con la lancia. Pensate che ci riuscireste? Quante volte leggiamo nei giornali di uomini che sarebbero morti nell’arida boscaglia se non fosse stato per le nostre capacità.
Vita nella “boscaglia”
Ho detto arida “boscaglia”, ma lo è solo per i nuovi Australiani. Noi aborigeni sappiamo che l’acqua c’è e anche come trovarla. Questa è un’altra delle nostre capacità del tempo dei sogni. Vi piacerebbe venire con me e lasciare che ve lo dimostrassi? Vedete quella sfumatura verde in mezzo all’erba più scura? Lì posso raccogliere acqua con l’aiuto del mio bastone per scavare. Se faccio un’incisione in quest’albero, ne colerà acqua. Sotto quel mucchio di fango essiccato al sole vi sono rane che conservano acqua. Le radici di questo eucalipto, se schiacciate, producono acqua. Se scavo abbastanza a fondo in quel torrente secco, raggiungo l’acqua. Vedete dunque che tutt’intorno a noi c’è acqua in questo arido terreno se sapete trovarla.
Infatti, c’è sia da mangiare che da bere, ma dovete sapere dove. Un moderno antropologo elencò diciotto cose da cui gli aborigeni potevano ricavare da mangiare in una piccola zona, come segue: 18 mammiferi e marsupiali, 19 uccelli, 11 rettili, 6 radici acquatiche, 17 semi, 3 vegetali, 10 frutti, oltre a molte piante acquatiche, funghi e uova. Probabilmente la nostra scelta di cibi e i nostri metodi di cucinarli non vi attirerebbe. I gusti differiscono, come si dice. Dopo una lunga, spossante giornata passata a camminare e cacciare, che gioia sedersi davanti a un pasto di tenero canguro, grasse lucertole messi ad arrostire lentamente sulla sabbia o in un forno d’argilla, insieme a bacche raccolte di fresco, foglie verdi e semi assortiti. Delizioso! Soprattutto, è ricco del nutrimento così essenziale per la nostra vita attiva.
Quando viviamo in questo modo non abbiamo bisogno di case. Nel mite clima australiano, non sono essenziali. Anzi, in effetti sono uno svantaggio, poiché ci legano a un solo punto dove l’acqua e il cibo si esaurirebbero subito. Né portiamo tende con noi. La nostra vita di caccia richiede che viaggiamo con poco peso. Oltre alle cose necessarie — otri per l’acqua, bastoncini per accendere il fuoco e utensili, che sono trasportati dalle donne — noi uomini quindi portiamo solo lance e bumerang.
Durante il viaggio la tribù avanza secondo un piano stabilito. Noi uomini andiamo avanti, sparsi in lungo e in largo, con gli occhi che scrutano il suolo per scoprire tracce fresche. Molto più indietro vengono le donne, i bambini e gli anziani. Tutti osservano un assoluto silenzio. Infatti, anche i bambini ai primi passi non calpesteranno un ramoscello o una foglia secca né bisbiglieranno. Ricordate che basta un rumore e noi andiamo a letto senza cena. Conversiamo mediante una lingua di segni ben sviluppata. Infatti, le parole fondamentali hanno segni universali fra tutte le tribù. Potreste parlare a persone di cui non conoscete la lingua?
Non viaggiamo sempre di giorno. Per conservare l’umidità del corpo e prendere il canguro notturno viaggeremo di notte. Quando viene il momento di accamparsi, allora è subito eretta una “casa” di frasche, per ripararci dal freddo vento di notte e dal caldo sole di giorno. Accendiamo un fuoco da campo e la dimora è stabilita.
Questo mi porta al soggetto di come accendere il fuoco. Durante il viaggio i nostri bastoncini per accendere il fuoco sono attentamente protetti dall’umidità. Osservate questo bastoncino simile a una matita appuntita e questa tavola piena di fori bruciacchiati. Ora guardate. Metto la punta della “matita” in uno di questi fori e la giro rapidamente fra le palme, premendo con fermezza, e vedete come fa presto il legno a cominciare a bruciare. Facciamo cadere le scintille su questo legno secco e soffiamo leggermente ed ecco, ho acceso il fuoco. Quasi così in fretta come fareste voi ad accendere un fiammifero! Volete cenare con noi? Abbiamo anatra, lombrichi grassi, uova di emu, radici commestibili e finiremo con le bacche che i bambini stanno raccogliendo.
Il bumerang
Vi chiedete come abbiamo fatto a prendere queste anatre? Ve lo spiegherò. Ma per farlo devo prima descrivere le nostre armi e i nostri metodi di caccia. Lasciate che cominci dal bumerang. Avete mai considerato quanto è preciso questo strumento? Nessun armaiolo fece mai un calibro con più abilità di quanta ne mostriamo noi nel fare un bumerang. La relativa lunghezza delle pale, l’angolo del gomito, la curvatura simile a quella di un’elica e la superficie superiore convessa: un qualsiasi difetto potrebbe rovinare il prodotto finito. L’Australian Encyclopedia dice: “I matematici hanno mostrato che una leggera alterazione nella forma del bumerang che torna indietro — nella proporzione tra grandezza, curvatura e arrotondamento — causerà corrispondenti cambiamenti nel suo volo che si possono dimostrare con equazioni”.
Probabilmente, vedendo che non abbiamo né tavole da disegno né strumenti di precisione, vi chiedete come riusciamo a fare un’arma così esatta. Il suo disegno è per così dire nella nostra testa, appreso dall’infanzia. I soli strumenti che usiamo per modellarla sono uno scalpello fatto con un dente di animale, un tula o strumento d’incisione ricavato dal quarzo con un conveniente orlo convesso e pezzi di selce e di pietra per levigare. Tuttavia com’è attentamente equilibrato e mirabilmente lucidato lo strumento finito! Sapreste fare un bumerang? o lanciarlo?
Sapevate che ci sono due specie di bumerang? O che il tipo che torna indietro non è quello usato per colpire la selvaggina? A questo scopo usiamo solo il secondo tipo, il bastone da lancio. Esso è fatto con altrettanta delicatezza ed è di forma simile, ma le pale sono su piani che lo rendono silenzioso. Se facesse rumore, il canguro che bruca lo sentirebbe avvicinarsi. Il suo movimento rotatorio è così rapido che è micidiale fino a una distanza di quasi duecento metri. Il tipo che torna indietro lo usiamo solo nelle gare sportive ed esclusivamente per un tipo di caccia: per prendere la scaltra anatra che abbiamo per pranzo.
Questi prudenti uccelli mettono delle guardie mentre mangiano, per cui si deve usare uno stratagemma. Un gruppo di cacciatori si sparpagliano e strisciano cautamente fino all’orlo dell’acqua, dove uno di essi lancia sull’acqua un bumerang che torna indietro. Il rumore delle sue pale rotanti somiglia al battito delle ali di un falco a caccia. Viene dato l’allarme, le anatre volano in alto, facili bersagli per i nostri bastoni da lancio. È così che abbiamo preso l’anatra per la cena di questa sera.
La nostra abilità di disegnare e fare il bumerang ha suscitato interesse in altre nazioni, ma questa è solo una delle nostre capacità. Nei nostri sogni abbiamo accumulato una vasta quantità di cognizioni sulla natura. Apprendiamo quali sono le abitudini degli animali, conosciamo e imitiamo il loro grido, prevediamo la direzione del vento, facciamo e gettiamo delicati arpioni per i pesci, facciamo recipienti impermeabili per l’acqua con le pelli o con il legno, facciamo lance di quarzo dentellate, costruiamo trappole per i pesci, facciamo zattere o ricaviamo una canoa da un tronco d’albero. Possiamo mascherare gli odori del corpo con fango, camuffarci con rami e se la selvaggina guarda dalla nostra parte, possiamo rimanere immobili sull’istante.
Non siamo il prodotto dell’evoluzione
Vi chiedete perché continuo a portare alla vostra attenzione le nostre doti? Vi prego, non mi fraintendete; non mi sto vantando. È perché c’è una teoria attuale, collegata all’ateistica evoluzione, secondo la quale noi Australiani aborigeni siamo una specie di superstite “anello mancante”. Avrete visto quelle illustrazioni molto immaginose di creature delle caverne, metà uomo, metà bestia, con capacità appena diverse dagli istinti animali. Tali creature non esistettero mai fuori delle pagine di libri pseudoscientifici. Ma poiché noi aborigeni non costruiamo case, ci ripariamo nelle caverne, non usiamo macchine, quegli uomini cercano di provare che siamo strettamente imparentati con tali creature. Arrabbiati? Certo che lo siamo!
Il punto che voglio far capire è questo. La differenza tra i popoli apparentemente più retrogradi e quelli più progrediti è una questione di opportunità. Le macchine da stampa hanno permesso ad altre nazioni di accumulare vasta conoscenza nelle biblioteche, ma noi l’abbiamo solo nei nostri sogni. Chi sostiene che, a causa della loro avanzata tecnologia, tali nazioni siano più altamente evolute, si appoggia a un errore. Noi non possiamo eguagliare la conoscenza da essi accumulata, ma possono essi eguagliare la nostra? Ciò che illustra il mio punto: le varie capacità dei popoli sono state utilizzate in diversi campi, ciascuna secondo i loro bisogni.
Alcuni anni fa fu pubblicato un articolo. Parlava di una bambina africana abbandonata da una tribù di cannibali, soccorsa da Americani e quindi istruita in America. All’università eguagliò e superò le sue compagne. Non è il luogo di nascita che conta, ma l’opportunità.
Si dice che un popolo si possa misurare dalla complessità della sua lingua. Diamo dunque uno sguardo alle nostre lingue. Benché ora siano cinquecento di numero, hanno origine da una sola fonte. Ho narrato come conversiamo ancora con la lingua dei segni, ma la nostra lingua parlata è molto complessa. Grammatica, ordine delle parole e vocabolario variano tutti. Dove l’inglese ha sei casi, alcune delle nostre ne hanno nove. Altre hanno tre generi in paragone con due in francese. L’inglese coniuga il verbo a sei, noi lo coniughiamo a undici.
Il nostro sistema sociale
La cultura e la civiltà che abbiamo sviluppate non suscitano anch’esse rispetto? Benché ciascun territorio tribale avesse confini stabiliti, tuttavia questo non ostacolava le relazioni fra le tribù. In tempo di siccità bisognava condividere le provviste d’acqua e di cibo. Le relazioni venivano mantenute da ambasciatori che portavano una sorta di totem tribale, il quale conferiva loro la condizione di ambasciatori. Il portatore del totem aveva libero accesso agli altri territori, dove poteva disporre scambi di spose, assicurare il passaggio del cibo o dell’acqua, ecc. Così venivano assicurate pacifiche relazioni.
Il sistema sociale in seno a ciascuna tribù era similmente ben predisposto. L’autorità era a volte patriarcale, a volte investita in un consiglio di anziani. Parecchie tribù andavano nude, ma il codice morale era alto. Qualunque uomo aveva l’autorità di trafiggere con la lancia sia la moglie adultera che il suo amante. L’istruzione dei figli cominciava presto; le ragazze imparavano a seguire le tracce, prendere e cucinare insetti e lucertole; i ragazzi imparavano a seguire le tracce, cacciare, fare e usare utensili, e imparavano a memoria la legge tribale e intertribale.
Non state attenti! Vi distrae quel rumore? È Wanju che si esercita nel suo didgeridoo per il corroboree di questa sera, che comincerà presto. Venite e andiamo a vedere.
A questi corroboree si scrive sulla mente della tribù gran parte dei nostri sogni, poiché qui si ripetono la legge, le usanze e i metodi di caccia. Per esempio, la danza che ora comincia è una lezione di caccia. Con che abilità quegli uomini imitano il canguro. Gli altri sono cacciatori, che li inseguono. Nella danza è inclusa l’imitazione di grida di uccelli e animali. Guardate con che premura i bambini guardano e imparano. Ora narrano la storia, raccontando ciò che accadde quando la tribù fu salvata da un grande diluvio che distrusse tutti gli altri del genere umano. Nel corroboree sono inclusi anche avvenimenti recenti. Vedete, ora descrivono la produzione di una pellicola cinematografica come hanno visto fare una volta. Ciascuna danza rappresenta qualche dramma, tragico o comico; ma sempre con le basi nella storia tribale.
Come arrivammo fin qui
Quando qualcuno mi presentò una Bibbia, fui sorpreso di scoprire che anch’essa parla del grande diluvio che avete appena visto nella danza. Fui indotto a chiedermi come noi aborigeni facessimo il viaggio dalla remota Sinar fino in Australia. Da ciò che ho letto, nessuno pare lo sappia realmente. Le congetture sembrano così numerose come quelli che le fanno! Comunque, certi fatti risaltano e sono effettivamente di aiuto. Ed è che siamo di discendenza ariana, non negroide; che venimmo dal nord.
Probabilmente fu passando da un’isola all’altra che i miei antenati sbarcarono sulle rive dell’Australia, e poi si sparsero sul continente, adattandosi a ciascuna località in cui si stabilirono e gradualmente si divisero in tribù, stabilirono usanze locali, introdussero varietà nella lingua fondamentale e idearono reciproci confini e territori. Adattarono la conoscenza e le capacità che avevano portate con sé al nuovo ambiente, acquistandone altre col tempo e col bisogno. Divennero esperti a sopravvivere in un paese arido. Poiché ora erano tagliati fuori dal generale corso della conoscenza che affluiva in altri paesi, le circostanze li misero nella condizione in cui li trovarono i primi colonizzatori europei quando sbarcarono nel 1770 E.V.
Ora due civiltà, totalmente dissimili, si scontrarono. Poiché i nuovi arrivati non conoscevano i nostri confini territoriali e i nostri metodi di custodire la nostra terra, pensarono che la terra fosse senza proprietario e si accinsero a sfruttare la loro scoperta. Dapprima fummo tolleranti, ma ne seguì inevitabilmente la guerra. Il moschetto si scontrò con la lancia. Pezzo per pezzo la nostra terra cadde nelle mani dei nuovi venuti e noi aborigeni ci trovammo confinati nelle riserve. Vedemmo le nostre foreste cadere davanti alla scure, al fuoco e al bulldozer; osservammo alcune specie di selvaggina estinguersi, altre spinte sull’orlo dell’estinzione. Il bastone per scavare e il trattore vennero a conflitto e il trattore vinse.
Vinse davvero? Ettari di terra sono ora bacini polverosi; il suolo superficiale si riversa nel mare; i fiumi sono inquinati. Gli insetticidi minano l’ecologia degli insetti, degli uccelli, degli animali e ora minacciano perfino l’uomo. Come gli aborigeni che vivono nelle riserve, così anche molte specie di uccelli e animali esistono solo in piccole zone che stanno rapidamente diminuendo di grandezza e numero.
Solo nel vasto, desertico, arido interno dell’Australia gruppi di aborigeni vivono i giorni del loro tempo dei sogni. Uno di essi, la tribù Pintubi, solo recentemente (1957 E.V.) fu incontrata da un giornalista di Melbourne nel deserto di Gibson, 1.000 chilometri a ovest di Alice Springs. Il suo servizio su di essi includeva quanto segue: non avevano mai visto prima un bianco, né denaro, né pesci, né farina; cacciavano con dingo addomesticati, mangiavano roditori e lucertole, andavano nudi, non avevano mai fatto il bagno e parlavano in sommessi sussurri.
Vorrei vivere con loro? Ma no! Né vorrei tornare ai giorni del nostro tempo dei sogni come facevo una volta. Vedete, in anni recenti ho imparato molto di ciò che dice la Bibbia dell’immediato futuro del genere umano, di come l’intera terra dev’essere trasformata in un nuovo Eden. Nulla di simile fu mai scritto nei nostri “sogni”. Invece del passato, ora desidero ciò che il futuro ha in serbo e spero di partecipare a coltivare questa terra d’Australia, di vedere sgorgare le acque dove ora ci sono deserti, ed essere qui quando i miei antenati torneranno nella risurrezione, e poter aggiungere al loro “tempo dei sogni” le felici informazioni circa il regno di Geova, e incoraggiarli a unirsi a me nel fare della nostra sorridente terra agli antipodi un paradiso.
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Come si usa il bastoncino per accendere il fuoco