Vale la pena di rischiare la vita?
Dal corrispondente di “Svegliatevi! in Spagna
È IL 14 luglio, l’ottavo giorno delle festività annuali con cui si celebra San Firmino, il santo patrono della città cattolica di Pamplona. Già prima dell’alba gruppi di persone hanno occupato punti strategici lungo le anguste strade di questa città spagnola. Le prime ore del mattino passano in fretta sorseggiando ogni tanto il contenuto di una borraccia che molti portano con sé.
All’improvviso la tensione aumenta. L’orologio della città comincia a battere le sette. Lo scoppio di un petardo fa sussultare. L’esplosione, udita in tutta la città, è salutata con grida eccitate.
Lungo il fiume Arga, i cancelli di un recinto sono spalancati e sei focosi tori spagnoli si precipitano fuori, condotti da alcuni manzi come esca. La folla degli spettatori dietro le transenne e i nervosi partecipanti che aspettano il loro momento di gloria alle falde della Cuesta (colle) de Santo Domingo sono in agitazione.
Mentre gli animali spaventati corrono sempre più velocemente su per il colle, ai loro occhi si presenta uno strano spettacolo. Verso di loro sta venendo un gruppo di giovani eccitati (e alcuni non tanto giovani) che indossano camicia e pantaloni bianchi, berretto rosso e una fascia in vita, l’abbigliamento tipico che si indossava un tempo in uno spettacolo popolare in cui si aizzavano cani contro un toro incatenato. Molti hanno in mano un giornale arrotolato con cui distrarre il toro in caso di improvviso pericolo. Quando solo pochi metri separano i due gruppi, gli uomini si girano bruscamente e ricominciano a correre su per il colle più in fretta che possono.
Gli animali guadagnano terreno, e gli uomini che sono in coda al gruppo lanciano un rapido sguardo dietro di sé per vedere se i tori cambiano direzione. Il più prudente si precipita verso il muro più vicino e si appiattisce contro di esso, senza muovere un muscolo per non attirare l’attenzione del toro.
Quando i tori arrivano in cima al colle, ecco la tragedia. Un toro di nome Antioquío resta separato dal branco. Si trova solo e attaccato, provocato dagli uomini lì intorno, che la vicinanza del pericolo rende temerari. L’istinto gregario dell’animale è rapidamente sostituito dal suo riflesso di legittima difesa. Comincia a colpire rabbiosamente con le corna. Un giovane ventiseienne, José Antonio Sánchez, è incornato e trascinato per parecchi metri. Gli altri cercano di soccorrerlo, ma invano, poiché muore tre ore dopo all’ospedale.
Finalmente il toro ritorna sui suoi passi e si dirige di nuovo verso il branco che sta scomparendo e verso la presunta libertà. E finisce nell’arena. L’arena stessa è piena di uomini, soprattutto giovani, desiderosi di gettarsi nella mischia, e alcuni provocano i tori. Antioquío colpisce di nuovo e il ventinovenne Vicente Ladio Risco è incornato e cade sulle ginocchia, portandosi le mani allo stomaco. Un grido di orrore si leva dalla folla degli spettatori nelle tribune. Ancora una volta sono stati spettatori di una tragedia durante le “sante” festività di San Firmino.
Valeva la pena di rischiare la vita? Due giovani vite spente in una mattina d’estate. E per che cosa? Quale nobile causa è stata incoraggiata? Valeva veramente la pena di rischiare la vita? Per i familiari e i parenti orbati l’orgoglio personale o la gloria valevano tanto? Si possono fare le stesse ragionevoli domande riguardo a molte attività umane del tempo libero che mettono decisamente a repentaglio la vita e che chiedono ogni anno un tragico tributo di vite umane.
Alpinismo: esente da rischi?
Per millenni l’uomo ha risposto al richiamo della montagna. Per alcuni essa presenta una sfida, mentre per la maggioranza costituisce un magnifico ambiente in cui rifugiarsi per evadere dalla monotona vita cittadina. Milioni di appassionati fanno passeggiate e si arrampicano sulle montagne di tutto il mondo, traendo immenso piacere e soddisfazione da questa attività senza quasi nessun rischio.
D’altra parte bisogna ammettere che molti alpinisti, sia in erba che esperti, perdono ogni anno la vita scalando le vette della terra. Per citare un esempio, nel novembre del 1980 tre giovani alpinisti cercarono di scalare la parete quasi verticale del monte San Jeronimo nel massiccio del Montserrat, vicino a Barcellona, in Spagna. Tutt’e tre fecero un volo di 260 metri, perdendo la vita. Forse accadde per mancanza di esperienza. Ma valeva la pena di rischiare la vita? Come risponderebbero oggi i loro genitori e i loro familiari?
La mancanza di esperienza non è affatto l’unica ragione delle sciagure alpinistiche. Nell’ottobre del 1978 una spedizione di esperte scalatrici tentò di raggiungere la cima dell’Annapurna I (8078 m) nell’Himalaya, in due squadre separate. Una squadra ce la fece. La seconda no. Si dice che Vera Watson e Alison Chadwick-Onyszkiewicz, esperte scalatrici, fossero legate insieme in cordata e stavano salendo quando caddero, perdendo la vita. Un’altra partecipante alla spedizione, Arlene Blum, scrisse nel suo diario: “Evidentemente non riuscirono a fermarsi e fecero una caduta di 457 metri giù per una ripida pendenza di neve e ghiaccio. Poteva accadere a qualsiasi alpinista, in qualsiasi momento. Ma perché doveva accadere? Mi sento stordita e penso alle loro famiglie. Quanto dolore e angoscia: quale montagna lo vale? Naturalmente avevamo deciso tutte di correre il rischio quando siamo venute qui. Ma le loro famiglie e i loro amici non avevano certo preso tale decisione”. (Il corsivo è nostro)
Una tragedia simile si è verificata più recentemente, nel giugno dell’anno scorso, negli Stati Uniti nordoccidentali. Sedici scalatori — undici sul Mount Rainier e cinque sul Mount Hood —hanno perso la vita sui fianchi di queste montagne.
Sì, quale montagna o quale effimera ambizione vale un simile rischio? Bisogna considerare questa domanda tenendo presente l’unico bene che viene messo in pericolo: la VITA! Che si creda o no in Dio, la vita è un preziosissimo bene che non si deve rischiare a nessun prezzo. La vita comporta una responsabilità non solo verso se stessi ma anche verso la propria famiglia (specie per chi è sposato o ha figli) e, nel caso del cristiano, verso Dio, il Datore di “ogni dono buono e ogni regalo perfetto”. — Giacomo 1:17.
Ovviamente non tutti gli incidenti di montagna avvengono agli alpinisti. Anche escursionisti impreparati sono morti di assideramento. Un esperto spagnolo ha fatto questi commenti: “Chiunque vada in montagna la domenica vedrà una folla di persone in cerca di avventura, la maggioranza senza il debito equipaggiamento e senza conoscenza della regione. È un miracolo che non ci sia un maggior numero di vittime”. Perciò, se andate in montagna, fate bene ad accertarvi di essere in buone condizioni fisiche, vestiti adeguatamente e provvisti dei viveri necessari. Se siete accompagnati da un escursionista o da un alpinista esperto, meglio ancora.
I fatti parlano da sé. In un recente sondaggio pubblicato da El País, un quotidiano di Madrid, nei cinque anni dal 1975 al 1979 l’alpinismo fu lo sport che fece il maggior numero di vittime in Spagna, per un totale di 137. Subito dopo, tra gli sport più pericolosi, c’erano la caccia e le attività subacquee, che nello stesso periodo avevano fatto rispettivamente 42 vittime ognuna. Poi venivano gli sport aerei, con 39 morti.
Sport aerei
Chi non ha invidiato il volo planato e naturale dell’aquila o dell’albatro? Da tempo immemorabile l’uomo sogna d’esser libero di volare e librarsi in alto come gli uccelli. Com’è dunque appropriata la domanda retorica che troviamo nel libro biblico di Giobbe: “È per il tuo intendimento che prende il volo il falcone, che spiega le ali al vento meridionale?” — Giobbe 39:26.
Negli ultimi decenni sono divenuti popolari sport aerei di volo libero come volo a vela, paracadutismo, viaggi in pallone e volo col deltaplano. Con un buon addestramento e adeguato equipaggiamento, nella maggioranza di questi sport si può tenere al minimo il pericolo, specie se non si è temerari. Non c’è dubbio che il volo silenzioso, con il vento come unico compagno di viaggio, è un’esperienza unica ed eccitante per l’uomo.
Lo sport aereo che comporta il massimo rischio è probabilmente quello del deltaplano. A questo proposito l’annuario del 1976 dell’Encyclopædia Britannica faceva questi commenti: “Nonostante i numerosi incidenti, alcuni dei quali mortali, causati dall’instabilità insita nell’aeromobile quando viene capovolto da improvvise raffiche di vento, il volo in deltaplano ha acquisito nuova rispettabilità durante l’anno, con le gare effettuate negli U.S.A. e in Austria”. (Il corsivo è nostro) Rudiger Elender, esperto di deltaplano, ha dichiarato: “Esistono piloti di deltaplano spettacolari, e vecchi piloti di deltaplano. Ma sono pochissimi i vecchi piloti spettacolari”.
Le ragioni tecniche degli incidenti col deltaplano sono: guasti meccanici in volo (che possono verificarsi malgrado l’attento montaggio e manutenzione), improvvisi cambiamenti della direzione del vento e possenti raffiche, correnti discendenti particolarmente forti che possono far precipitare il più esperto pilota.
Nel giugno del 1979 Patrick Depailler, famoso corridore di formula 1, rimase gravemente ferito mentre pilotava un deltaplano nella nativa Francia. Un’improvvisa raffica di vento lo fece precipitare. Sopravvisse per raccontarlo ma dovette subire varie operazioni per le ferite riportate.
Meno fortunato fu un giovane cristiano negli Stati Uniti. Mentre pilotava un deltaplano ebbe un incidente e si fratturò il collo. Guarito, riprese a volare in deltaplano. Un giorno, poco dopo il decollo, un’improvvisa raffica di vento lo fece ribaltare e perse il controllo dell’aeromobile. Fu scaraventato contro il fianco di un monte e perse la vita. Di nuovo chiediamo: Valeva la pena di correre tale rischio? Quando consideriamo la terribile perdita subita dalla vedova e dai genitori, è anche ragionevole chiedere: C’è una traccia di egoismo nel desiderio di praticare uno sport che ha un così piccolo margine di sicurezza? Questo è un fattore che il cristiano fa bene a prendere in considerazione dato che ha il dovere di amare il prossimo come se stesso. — Matteo 22:39.
Vittime delle corse automobilistiche
Nonostante l’incidente avuto col deltaplano, Patrick Depailler tornò alle corse automobilistiche. Il 1º agosto 1980 morì in uno scontro mentre si allenava sul circuito di Hockenheim in Germania.
Cosa spinge gli uomini a correre simili rischi? Un esperto dichiara: “I piloti di auto da corsa sono spinti dallo spirito competitivo e dalla speranza di ottenere ricchezza, fama e gloria”. (Encyclopædia Britannica, Macropædia, Volume 12, pagine 569-70) Ma bisogna anche riconoscere che tale motivazione si è lasciata dietro una scia di morti, sia famosi che poco conosciuti. Infatti la stessa enciclopedia dice ancora: “Nel corso degli anni, centinaia di piloti e di spettatori sono rimasti uccisi durante le gare. Il rischio è implicito nella natura stessa delle corse. . . . Continueranno a esserci [incidenti]. Il problema è come proteggere piloti e spettatori quando si verificano”.
Forse la domanda più importante è questa: “Ricchezza, fama e gloria” sono forse i massimi valori della vita? Vale la pena di rischiare la vita solo per vedere il proprio nome in una lista di campioni del mondo che presto saranno dimenticati?
Decisione personale
Nella vita ci sono molte attività che comportano un rischio minimo o in cui si può restare feriti o anche uccisi. Si può essere coinvolti in un incidente viaggiando in aereo, andando in macchina in città o anche solo attraversando la strada. Tuttavia queste remote possibilità non ci impediscono di condurre una vita normale.
D’altra parte ci sono attività che non sono obbligatorie o essenziali per la vita e che tuttavia comportano un più alto grado di rischio per la vita o la salute fisica. In tali casi ciascuno deve personalmente rispondere alla domanda — Vale la pena di rischiare la vita? — e assumersi la responsabilità implicita nella domanda. Sotto questo aspetto specialmente il cristiano ci penserà due volte prima di mettere a repentaglio il dono che Dio gli ha fatto: quello della vita stessa.